Forse non è chiaro ma dalla pandemia in poi in qualche momento potremmo non essere più italiani, ma emiliani o toscani. Siamo sicuri che i Costituenti volessero questo? Forse è giunto il momento di una riforma visionaria dell’art. V che trasformi le Regioni in organi politici elettivi responsabili esclusivamente della promozione e allocazione di risorse e opportunità, senza vincoli di confini. Bologna e Firenze potrebbero diventare un distretto funzionale, un’area economico-produttivo sinergica che, libera da coercitive maglie regionali, operi nell’interesse delle collettività locali e nazionali
di Fulvio Cammarano, storico
Sergio Mattarella giorni fa ha stigmatizzato la radicalizzazione del conflitto emersa nei mesi scorsi tra Stato e Regioni, esattamente a 50 anni dalla loro istituzione. È un anniversario importante perché mai come oggi, complici le devastazioni del Coronavirus, le Regioni si sono trovate al centro della scena accreditandosi come “piccole patrie”, dotate di volontà politica in grado di contrapporsi allo Stato. Ci siamo quasi assuefatti. Senza tornei sportivi, partecipavamo a una competizione che metteva in campo presidenti di Regione in lotta tra loro ma pronti tutti insieme a sfidare i decreti governativi rivendicando spazi di sovranità. Gli italiani hanno scoperto che esistono frontiere regionali controllate militarmente.
Nel mezzo dell’emergenza l’Italia si è misurata anche con difficoltà supplementari dovute a un profilo istituzionale incompiuto. La nascita della Regione nel 1970 (prevista dalla Costituzione) si rivelò, in un ventennio, trampolino per le sempre più diffuse aspirazioni al decentramento legislativo che tuttavia non hanno trovato definitiva consacrazione con la riforma del titolo V, lasciando il problema a metà strada. L’Italia non si è trasformata in un Paese federale, come la Germania, e però non è più lo Stato accentrato e onnipotente delle origini. Il risultato, ad oggi, è una cacofonia di interessi interpretati sulla base di un potere politico-geografico sinora evanescente nella cultura degli italiani, ma che si accinge a reclamare più autonomia. Era inevitabile: non c’è potere al mondo che non cerchi di rendersi più autonomo e di espandere le proprie prerogative e la crisi pandemica si è rivelata un’occasione. Anche gli slittamenti lessicali ci aiutano a capire una deriva incontrollabile: da quando, nel 2000, i presidenti vengono eletti direttamente dai cittadini, i media hanno cominciato a chiamarli impropriamente “governatori”, titolo che ormai è gergo e che richiama la qualifica di capi di stato, al pari dei governatori Usa. Le Regioni sono nate per facilitare i processi di partecipazione democratica e valorizzare le risorse dei territori, ma è anche vero che tale ente è un’invenzione il cui consolidamento avviene a spese dello Stato in una realtà costituzionale che non è federale.
Trasformare un bolognese in emiliano necessita di un rilevante investimento materiale, molta fantasia e una costante narrazione identitaria: potrebbe non essere un problema a patto di chiedersi in che modo questa “invenzione” ci è utile. Domandarsi a cosa serve la Regione a 50 anni dalla nascita non è domanda provocatoria, né astratta. Pone anzi una questione concreta. Gestire più da vicino e democraticamente risorse del territorio è occasione per farlo meglio, ma i vantaggi vanno perduti se questa democratizzazione del rapporto tra cittadini e autorità politiche avviene sulla base di una identità il più delle volte inventata, sicuramente meno significativa e (spesso) in rotta di collisione con quelle, ben più vissute, delle province e soprattutto dei Comuni. Oggi anche coloro che avvertono la necessità di estendere i “grandi confini”, quelli nazionali, per giungere a una vasta comunità europea più adatta a confrontarsi con problemi planetari, non possono ignorare l’importanza dei “piccoli confini”, ma vorrebbero considerarli in termini di funzionalità operativa e non in vista della produzione di ulteriori segmenti territoriali o, peggio, di rendite di posizione politica.
Su questo problema che non è solo di natura istituzionale, la gestione della crisi sanitaria ci ha posto di fronte a un bivio: o completare il processo che ci condurrà alla nascita di uno stato realmente federato, magari con una camera destinata alla rappresentanza dei territori, oppure trasformare la Regione in un coordinamento politico di distretti funzionali e mobili da far sorgere sulla base delle esigenze (sanitarie, produttive, sociali, ecc) che di volta in volta si presentano sulla scena. Alle Regioni, in questo caso, dovrebbe toccare il compito di gestire la formazione di aree, circoscrizioni, più o meno temporanee, che non conoscono confini geografici, ma solo operativi. Liberandoci da quelle gabbie fantasiose quanto rigide che tengono insieme Mantova e Varese, Piacenza e Ravenna, Lecce e Foggia, la Regione potrà finalmente diventare l’organo politico in grado di immergersi nella realtà, plastica e mutevole perché fatta di territorio, vocazioni produttive, materialità, relazioni, storia e tradizioni. Se fosse stato così tra Pesaro e Rimini, invece di un confine fasullo e non vissuto, avremmo avuto un distretto di emergenza sanitaria che nasceva sulla diffusione del contagio e non su frontiere che i virus, la produzione, la cultura ignorano.
Forse non è chiaro ma da oggi in qualche momento potremmo non essere più italiani, ma emiliani o toscani. Significa qualcosa nella vita reale? Siamo sicuri che i Costituenti volessero questo? Che noi vogliamo questo? In realtà è forse giunto il momento di una riforma visionaria dell’art. V che trasformi le Regioni, da enti pubblici paralleli e inevitabilmente rivali dello Stato, in organi politici elettivi responsabili esclusivamente della promozione e allocazione di risorse e opportunità, in grado di agire senza vincoli di confini. Lo hanno auspicato recentemente, in modo diverso, anche Stefano Bonaccini e Emma Petitti, presidenti della Regione e dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna: la Regione del futuro deve valorizzare le peculiarità e non reprimerle, superando contrapposizioni fittizie tra centro e periferia, “al di là di colori politici e confini geografici”, un principio sacrosanto per chi pensa in termini di soluzioni dei problemi dei cittadini italiani e non di sovranismi personalistici.
In questo modo, ad esempio, Bologna e Firenze potrebbero diventare un distretto funzionale, un’area economico-produttivo sinergica che, libera da coercitive maglie regionali, operi nell’interesse delle collettività locali e nazionali. Le frontiere hanno senso se ne capiamo le ragioni: dare più forza a quelle esistenti non è una buona idea soprattutto per quella parte decisamente maggioritaria degli italiani naturalmente e culturalmente meticcia.