Il locale storico di via collegio di Spagna nasce nel 2003 come primo esperimento di Social Bar a Bologna. Francesco Bonfiglioli, presidente della cooperativa Iusta Res che oggi lo gestisce, ci lavora dal 2005. Da sempre attento agli aspetti della socialità, della formazione e del civismoi racconta come ha vissuto da oste questi mesi di lockdown e come immaginare una nuova ripartenza
di Meri De Martino, consigliere di quartiere, Bologna
Partiamo dall’inizio, come nasce il Cafè de la Paix? Nasce nel 2003 da un’idea pioneristica di economia e finanza alternativa che unisce due tipi di licenze, quella del commercio equo e solidale e quella del bar. Da noi non esistono differenze politiche, geografiche o religiose, si lavora e si cresce insieme. Dall’inizio abbiamo aperto percorsi di formazione e inserimento lavorativo per minori e giovani in situazioni di fragilità, tramite collaborazioni con il carcere minorile, i servizi sociali e realtà che accolgono minori stranieri non accompagnati. Dal 2007 abbiamo completato più di 500 percorsi senza oneri per l’ente pubblico.
Certo, essere sia barista che formatore non è semplice. Si affrontano momenti faticosi ma la soddisfazione è grande soprattutto quando tornano e ti dicono che hanno trovato un’occupazione stabile nel settore in cui li abbiamo formati. Alcuni sono rimasti a lavorare proprio qui.
Chi viene qui a prendersi un Cafè ha piena coscienza di questo?
Dipende: ci sono quelli innamorati della nostra causa sociale, quelli infatuati dalla scritta equo solidale e… i distratti. Ma una clientela eterogenea è un bel banco di prova anche per i ragazzi.
Parlando proprio dei ragazzi… Come avete vissuto questo lockdown?
Durante la chiusura la cooperativa ha fatto la spesa e acquistato beni materiali per chi aveva bisogno. Per non perderci d’animo abbiamo continuato a sentirci, a pensare a menù nuovi, a una riapertura che secondo noi deve essere impostata guardando almeno ai prossimi 2/3 anni. Perché se si guarda a quello che abbiamo vissuto con la prospettiva di rinnovarsi, si va avanti con più entusiasmo, nonostante le tante difficoltà. Ancora oggi siamo a circa l’80% in meno di quello che era il normale flusso lavorativo. In generale, poi, la quarantena ha palesato molti limiti strutturali di questo paese e ci sono alcune lezioni che dovremmo imparare.
Ad esempio?
Prima di tutto che se ognuno pensa ogni giorno a fare bene il proprio all’interno di una catena civica virtuosa le cose possono solo migliorare. Detto con una battuta, senza impegnarci troppo a diventare tutti virologi in una settimana.
In secondo luogo, chi è chiamato a prendere decisioni dovrebbe pensare che non si possono aspettare tre mesi per avere una cassa integrazione e che non si può dire che si farà tutto in fretta, perché questo crea aspettative e le aspettative disattese portano stress e disagio. Bisogna mettere le persone che hanno investito su loro stesse nella condizione di rischiare di nuovo. I 25.000 euro, che molti come me aspettano dal 9 marzo, sicuramente non basteranno ma possono dare quel minimo di respiro che ci mette nella condizione di rischiare di nuovo partendo da qualcosa. Gli strumenti per rispondere a questa crisi ci sono stati ma sono stati sbagliati nei tempi e non tutti possono permettersi il lusso di aspettare. A questo si è pensato poco.
E pensando alla città, quali lezioni impariamo?
La più scontata è che servono più misure a prova di pedone. I Tdays sono stati una sperimentazione che ha funzionato molto bene quindi si può pensare di allargare quest’area. Questo chiaramente prevede delle scelte strategiche non da poco perché bisogna sempre pensare che ci sono persone che non possono camminare e basta.
L’altra faccia della medaglia sono anche i rischi di assembramento…
Il problema non è tanto che l’assembramento si crea ma è come lo si gestisce. Io la vedo così: se io amministrazione ti affido un’area di cui tu sei responsabile, tu dovrai essere il primo a chiamarmi per intervenire se c’è un problema che non riesci a gestire. Se alcune piazze, come ad esempio piazza San Francesco, venissero gestite da 3-4 locali eviteremmo il vetro che gira e le birrette abusive e avremmo un luogo più gestibile.
E chi vuole bere la sua Moretti da 1,50€?
A Barcellona, già dieci anni fa, nelle vie più frequentate si trovavano bagni pubblici all’infinito, disponibilità di tutti i locali ad aprire i propri bagni e prezzi calmierati e condivisi da tutti i commercianti per le cose basilari: birra media, mojito, sangria. Poi a seconda del posto in cui ti sedevi avevi specialità e prezzi differenti su altri prodotti.
Una cosa simile si potrebbe fare per alcune zone della nostra città. Ci mettiamo tutti d’accordo e su alcuni prodotti semplici applichiamo le stesse tariffe calmierate. Ad esempio, una chiara alla spina a 3 euro che però comprende anche il servizio al tavolo, i bagni a disposizione ecc. Sarebbe una mediazione tra 1,50€ della Moretti del market e i 5 euro attuali del locale. Se collaboriamo tutti, le soluzioni si trovano.
Tornando ai Tdays, so che al momento state lavorando a una proposta di pedonalità temporanea. Puoi anticiparci qualcosa?
Sì, abbiamo un progettino che prevede una pedonalità temporanea in alcuni sabati. È una proposta costruita in collaborazione con due compagnie di musica e di teatro e con la partecipazione di artisti di strada. L’idea è di mettere qualche tavolino del bar fuori, i libri della Libreria Pavoniana, e proporre un programma culturale che tenga insieme teatro, musica, circo e poesia: dal mito di Bukowski, per celebrarne i cent’anni dalla nascita, a Bob Dylan, passando per Baudelaire, Shakespeare e Neruda.
Il Cafè de la Paix sarebbe responsabile del rispetto di tutte le norme, gli spettacoli terminerebbero entro le 23 e potrebbero essere visti solo stando seduti ai tavoli ben distanziati. Non ci guadagneremo molto ma è un segnale positivo che vorremmo dare e poi la nostra filosofia non è mai stata quella di fare un euro in più stressando al massimo la capienza. Il nostro obiettivo è quello di creare nuove relazioni che possano durare 15-20 anni, offrendo un servizio che faccia stare bene tutti.
Questa è un’intervista alla quale tengo particolarmente. I primissimi incontri di Cantiere Bologna li avete gentilmente ospitati proprio voi, quando ancora non eravamo che un’idea astratta.
Proprio a Cantiere Bologna mi sento di dire una cosa: oggi non abbiamo bisogno di persone che danno speranze per 6-7 mesi e poi ci dicono «scusate ma siamo stanchi». Abbiamo bisogno di persone che dicono «sì, siamo stanchi, siamo morti, ma andiamo avanti». Estremizzando un po’ direi che oggi l’Italia avrebbe bisogno di più gente che “muore in Bolivia” e meno gente che governa per 50 anni. Insomma, servono persone nuove e controcorrente.