Trentacinque giovani hanno dato prova del fatto che è ancora possibile intendere un settore che è un patrimonio artistico italiano in un modo diverso rispetto a chi, con lo sfrenato usa e getta purtroppo in voga, contribuisce giorno dopo giorno a distruggere il pianeta. Ancora una volta il rinascente quartiere dietro alla Stazione si rende protagonista di un’iniziativa rivolta al futuro
di Andrea Femia, digital strategist
A scanso di equivoci, non è che sia mai stato troppo attento a ciò che la moda ha da proporre. Qualsiasi cosa che vada al di là di una maglietta e un jeans (cambio volutamente l’ordine per non pagare i diritti a Nino D’Angelo) mi sembra un modo tutto sommato futile di approcciare al mondo, per cui, mentre scrivo, mi interrogo sulla mia evoluzione di uomo capace addirittura di emozionarsi di fronte a taluni scenari come questo relativo alla Freewear Academy della Bolognina, e della nascita della collezione B-Switch.
Non perché mi curi di quanto siano belli i capi – lo streetwear non è esattamente il mio stile principe – ma perché quando ho scoperto quello che 35 ragazze e ragazzi stanno mettendo su, ho pensato che anche dietro questo mondo si possono ancora nascondere storie così positive che non è giusto rimanere indifferenti. Che non è giusto che non ci siano vetrine.
La bellezza e l’enorme sorpresa sta nello scoprire che queste 35 giovani menti fanno parte di alcuni istituti bolognesi che hanno garantito loro l’opportunità di mettersi in gioco, di studiare e mettere a punto un metodo nuovo, ma soprattutto etico, nella rincorsa alla commistione tra la salvaguardia di un patrimonio storico tutto italiano, quello della moda in senso proprio, e di una più profonda innovazione legata anche al rapporto con la Bolognina, che nel suo essere sede dell’accademia è anche cuore di questo progetto che tra i soggetti protagonisti annovera anche il Comune, oltre alla piattaforma di crowdfunding apposita per le scuole, schoolraising, tramite la quale si può sostenere la collezione B-Switch e la relativa sfilata che si terrà al Dopolavoro ferroviario il 17 ottobre.
Il tema dell’etica nella moda è fin troppo sottovalutato. Viviamo l’epoca dello sfrenato usa e getta del vestiario; un’enorme sovraproduzione caratterizza molti dei marchi che hanno gettato le fondamenta del proprio gigantismo anche e soprattutto su uno sfruttamento del lavoro, in termini di salario e condizioni, fuori da ogni limite dell’umanamente accettabile. E siccome chi sceglie di mettere l’etica nel fondo del baule non incide negativamente su un solo aspetto, uno dei più grandi temi relativi a questa sovraproduzione è senza dubbio l’impatto ambientale. L’inquinamento prodotto è un avvelenamento per il quale è dannatamente difficile porre rimedio.
Proprio sulle pagine di Cantiere Bologna abbiamo avuto la fortuna e il modo di ospitare degli interessantissimi interventi volti al ragionamento sui deficit in termini etici di alcune catene protagoniste attive della cosiddetta fast-fashion. Per prepararmi adeguatamente, soprattutto in termini di empatia, nella scrittura di questo pezzo, non ho potuto fare a meno di seguire il consiglio di chi mi ha suggerito di vedere il documentario di qualche anno fa che si trova ancora oggi sul catalogo di Netflix: The True Cost.
Per capire quanto abbiamo bisogno di nuove esperienze che mettano la parola Sostenibilità al centro della moda, e di quanto bisognerebbe essere orgogliosi che un’esperienza del genere prenda vita proprio a Bologna, vi consiglio di vederlo.
Photo credits: B-Switch