La prefetto: «Vivere da greci, come insegna Adriano»

Lavoratrice, moglie, madre, sorella, figlia «molto affezionata a due genitori che non ci sono più». Si ritrae così Francesca Ferrandino, classe 1962, da circa due mesi rappresentante del Governo a Bologna, dove è arrivata con l’idea che il lavoro sia servizio allo Stato, come l’imperatore romano racconta nelle Memorie della Yourcenar, facendole venire «le lacrime agli occhi». Sull’emergenza Covid, citando Mattarella, è perentoria: «Bisogna indossare la mascherina». Il problema criminale maggiormente percepito dai cittadini sotto le due torri è «lo spaccio di strada», ma c’è pure la mafia: «L’Emilia-Romagna ha ottimi anticorpi, ma non abbassi la guardia». Tra le sue passioni sciare e curare le piante. Della nuova sede afferma: «È una città straordinaria che ti toglie il fiato. Essere qui richiede un grande impegno»

di Bruno Cosentino, giornalista


Prefetto Ferrandino, qual è la sua posizione sulle mascherine? «È una sola, e l’ha chiarita il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando ha detto che libertà significa proteggere l’altro: nei luoghi con assembramento bisogna indossarle. È una questione di civiltà e di cittadinanza attiva. L’autorità sanitaria ci impone di farlo e la salvaguardia della salute pubblica è un principio costituzionale».

Quali sono i problemi criminali di Bologna?

«Leggendo le segnalazioni giornaliere delle forze di polizia, mi colpiscono in particolare le truffe agli anziani e i maltrattamenti in famiglia. Detto questo, però, sto imparando a conoscere una realtà come quella di Bologna che è attenta alle fragilità, con particolare riguardo agli anziani. Sotto questo profilo l’Emilia-Romagna è una regione molto avanzata. Ciò non significa che dobbiamo adagiarci sulle cose già fatte. Dobbiamo sempre fare meglio e di più».

Mi perdoni. Il problema criminalità a Bologna davvero riguarda principalmente truffe agli anziani e maltrattamenti in famiglia?

«No, non è solo questo. Bologna è una zona di spaccio. C’è la necessità ineludibile di lavorare su quest’argomento che incide sulla percezione di sicurezza dei cittadini. Quello del degrado in zona universitaria e in Bolognina è un argomento scottante. C’è poi la questione dell’infiltrazione della criminalità organizzata, contro la quale l’Emilia-Romagna ha eccellenti anticorpi, ma non bisogna mai abbassare la guardia».

Ha detto che Bologna è zona di spaccio. Secondo lei è questo il problema criminale più importante della città?

«Diciamo che, da quello che ho visto in questi due mesi e mezzo, è il problema maggiormente percepito soprattutto dagli abitanti del centro storico. Parlo di spaccio di strada, non di grandi traffici, che di solito non sono percepiti dai cittadini».

A proposito di mafia, quali sono le differenze tra lavorare al Sud e lavorare al Nord?

«Lavorare al Sud è più facile, perché la geografia delle presenze criminali è più evidente. Al Nord, invece, la mafia è più subdola. In ogni caso, parliamo di un cancro che si infila nel tessuto della società e tende ad agire in silenzio. Per cui spetta ai cittadini, agli esercenti, alle realtà produttive non cadere nelle maglie dell’usura e dell’estorsione».

A Bologna c’è un’alta percezione di insicurezza, nonostante il numero di reati della città sia uno dei più bassi di tutta Italia. Paura esagerata?

«In tutto il Paese si dibatte su quest’argomento. Uno dei grandi temi del tavolo della sicurezza è proprio quello di cercare di mitigare la paura dei cittadini, che è un sentimento umano e non va mai ridicolizzata. Va però governata razionalmente e tenuta in conto dalle istituzioni deputate alla sicurezza. In questo senso, è importante che ci sia una comunicazione corretta che affronti il problema anche in maniera dura, senza limitarsi a fare notizia».

In passato il terrorismo ha colpito al cuore Bologna – pensiamo non solo alla strage del 2 agosto. Secondo lei la stagione della tensione è un lontano ricordo?

«Per rispondere a questa domanda bisogna fare un’analisi approfondita. Affermare a priori “la stagione delle stragi è finita” è estremamente stupido e arrogante. Io studio l’andamento del territorio e un’analisi seria e rigorosa non può richiedere una fuga in avanti nelle valutazioni».

Non c’è però una strategia della tensione in atto?

«Onestamente il rischio zero non esiste mai e lo abbiamo visto con gli attentati che ci sono stati in Europa negli ultimi anni. Comunque sia, il controllo del territorio c’è ed è in continuo divenire».

Un altro problema è quello legato alle violenze da parte di bande di ragazzini – ad esempio le aggressioni della “Ak-47 gang” o le risse in piazza Carducci. Come si può agire per arginare questo fenomeno?

«Prima dell’inizio delle scuole abbiamo fatto un Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica nel quale sono state affrontate questioni relative alle cosiddette baby gang e al cyberbullismo».

Cosa ha stabilito questo Comitato?

«Abbiamo deciso che l’Ufficio scolastico regionale dovrà mappare tutti gli istituti che si trovano in zone critiche sia sotto il profilo dello spaccio che di quello legato a baby gang e cyberbullismo. Successivamente valuteremo la possibilità di creare un team composto da forze di polizia e da persone che siano in grado di comunicare con i ragazzi. Noi adulti, noi istituzioni abbiamo un problema di comunicazione con i giovani».

Spieghi meglio.

«A volte non riusciamo a rendere affascinante – mi si passi il termine – il concetto di legalità. Quindi dobbiamo trovare modalità di colloquio che incidano sulla coscienza critica degli studenti».

Parliamo un po’ della sua vita. È stata dura non vedere la sua famiglia durante il lockdown?

«Sì. È stato difficile non avere un contatto fisico con le persone che amo, però i mezzi tecnologici hanno annullato le distanze. A Pasqua, ad esempio, abbiamo pranzato tutti insieme, anche se in maniera virtuale. Dal punto di vista professionale, invece, il lockdown non ha creato particolari difficoltà, se non un impegno più pressante e una responsabilità maggiore, anche per la sicurezza dei lavoratori che entravano in Prefettura [di Catanzaro, ndr]».

Al netto del lockdown, riesce sempre a trovare un equilibrio tra vita personale e lavorativa?

«Non sempre ci riesco. Nel corso della mia carriera ho cercato di essere equilibrata e ho avuto dei capi eccezionali – come Carmelo Caruso, Matteo Piantedosi e Annamaria Cancellieri – che hanno compreso le situazioni che vivevo. Io, meridionale, sono andata a vivere a Milano e ho dovuto arrangiarmi, anche perché mio marito non poteva essere sempre presente in quella città per via del suo lavoro. Però non ho mai rinunciato a educare mio figlio e a dargli il calore e il rigore di cui c’è bisogno».

Ci dica di più di lui.

«Quand’era piccolo lo portavo con me almeno un paio di volte a settimana. Poi ha subito vari trasferimenti, dovuti più che altro al lavoro di mio marito. A sedici anni è venuto con me a Palermo, dove si è trovato benissimo. Poi è stato costretto a spostarsi ad Agrigento quando mi hanno nominata Prefetto e lì ha finito il liceo. Nonostante i vari traslochi, io e mio marito abbiamo provato a insegnargli il rigore, a fargli capire che niente gli è dovuto e lui ha risposto molto bene. Speriamo per il futuro».

Ha qualche hobby?

«Adoro sciare. Sono stata una ragazza molto sportiva, ho praticato quasi tutti gli sport di questo mondo, compresa l’equitazione con mio figlio. Con tutta la famiglia, almeno una settimana a Natale, andiamo a sciare. Mi piace moltissimo curare le piante, è una cosa che mi dà serenità. Non sono invece capace di cucinare, anche se ci provo disperatamente».

Quale libro ha sul comodino?

«Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. La parte che mi ha fatto venire le lacrime agli occhi è quella in cui Adriano dice: “In greco ho pensato, in greco ho vissuto” e aggiunge che il lavoro è servizio allo Stato. È qualcosa di un’attualità stringente».

Lei ha cambiato città tante volte, è stata a Milano, Savona, Genova, Livorno, Palermo, Agrigento, Messina, Bergamo e Catanzaro. Se potesse fermarsi definitivamente, dove vorrebbe vivere?

«Posso essere sincera? Non ne ho la più pallida idea [ride, ndr]. La vita girovaga che ha caratterizzato la nostra famiglia non ci consente di scegliere. Io ho casa a Milano, ma anche in Toscana e in Campania. Tutti questi trasferimenti mi hanno un po’ mandato in crisi, perché mi hanno fatto perdere le radici che uno ha nei luoghi d’infanzia».

Immagino sia dura perdere le radici.

«Eppure me ne sono fatta una ragione e ho pensato che le radici sono nel mio cuore e nei miei affetti. Dove vorrei vivere? Non lo so. Come vorrei vivere? Questo lo so. Vorrei vivere avendo la possibilità di avere un terrazzo pieno di piante da curare, di girovagare senza tempo e di fare cose diverse, anche guardando l’altro con occhi diversi».

Che idea si è fatta di Bologna?

«È straordinaria, ti toglie il fiato. In questa città si percepisce cultura e accoglienza da tutte le parti. A Bologna ti senti a casa e vorresti che gli altri si trovassero bene con te».

Lei considera la città un esempio per l’Europa e dice che sarà la sua nuova sfida. Ci spieghi meglio.

«Più che di “sfida” parlerei di “impegno lavorativo”. Bologna ha una grande università, ha un tessuto socioeconomico invidiabile, ha un’imprenditoria straniera che firma il 12% del Pil bolognese, ha un sistema culturale fantastico. Tutto ciò richiede un impegno non indifferente e spero di essere sempre all’altezza della situazione».

Come donna, sente di avere una responsabilità particolare e di dover affrontare una sfida ulteriore?

«No. Io penso di avere una responsabilità come persona, non come genere. Con questo non nego che una donna possa avere difficoltà nel mondo del lavoro. Anzi, non tanto in questo, ma nel cercare di coniugare vita privata e lavorativa».

Una questione eterna, del resto.

«Tradizionalmente alla donna è affidata la gestione familiare. Però cerco di non pensarci, anche perché mio marito ha molto rispetto della mia persona. Non sento responsabilità particolari nel mio ruolo. Anzi le racconto un aneddoto».

Prego.

«Quand’ero a Messina, durante l’organizzazione del G7 di Taormina [del 2017, anno in cui ha ricevuto l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica italiana dal presidente Mattarella, ndr], c’è stato un giorno in cui, seduta a un tavolo, mi sono guardata attorno e ho visto solo uomini [ride, ndr]. Non per questo mi sono spaventata. Credo che siano stati galantuomini perché ci siamo sempre guardati negli occhi e ci siamo rispettati professionalmente».

Una cosa che non capita tutti i giorni.

«Quand’ero un giovane prefetto anch’io ho ricevuto umiliazioni e schiaffi. Quindi anch’io ho trovato difficoltà, ma ho sempre guardato il mio interlocutore dritto negli occhi, facendo qualche volta finta di non capire e dando risposte di natura professionale. Quello che senti dentro non lo esterni, proprio perché hai un ruolo da svolgere. In casa, poi, non ho mai notato differenze tra uomo e donna. Anzi, c’è una cosa che le voglio dire».

Mi dica.

«Normalmente sono io che aspetto mio marito e mio figlio sulla soglia della porta. Quando usciamo, io sono sempre pronta prima di loro».

Per lei, dunque, non c’è un problema di genere.

«Nel mio ambito no. Esiste però un problema di genere a 360 gradi e questo è un tema sul quale dobbiamo affrontare sfide e impegni lavorativi».

Cosa intende quando parla di problema a 360 gradi?

«Parlo, ad esempio, della violenza sulle donne e dell’integrazione di donne provenienti da altre realtà del nostro mondo che hanno una forma mentis da rispettare. Sotto questo profilo, credo che proprio quella del prefetto sia una delle figure istituzionali più sensibili all’evoluzione del contesto sociale e che perciò deve tenere conto di una serie di questioni».

Di quali questioni parla, di preciso?

«Noi viviamo in una società dove le trasformazioni sono velocissime, dove gli ambienti urbani hanno visto profondi cambiamenti. Lavoriamo in città già proiettate in una realtà multietnica e dove s’impongono in maniera prepotente il tema dell’effettivo equilibrio tra uomo e donna nel mondo del lavoro e quello della violenza sulle donne. Dunque, io non nego che ci sia un problema di genere. Dico solo che nella mia vita ho cercato di andare avanti facendo finta di niente. Dal punto di vista caratteriale sono un panzer [ride, ndr]».

Quali consigli darebbe alle giovani donne che vogliono intraprendere una carriera da prefetto?

«Posso dirlo in maniera poco istituzionale? Consiglierei di “buttarsi nella mischia” con competenza e umiltà e proponendo formule nuove. Non amo le persone che dicono “abbiamo sempre fatto questo”. Da chi viene a lavorare da me voglio idee nuove, ossigeno».

L’intervista al prefetto Francesca Ferrandino è stata realizzata per Quindici, la rivista quindicinale del Master in giornalismo dell’Università di Bologna


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