Stazione di Bologna, 20 luglio 1893. Quel giorno i destini di un ferroviere e di una contadina si incrociano. Uno è Pietro Rigosi, l’anarchico che lancia la motrice poi celebrata da Guccini contro lo scalo: “Meglio morto che legato”. Sopravvisse. L’altra è Amalia Bagnacavalli: è appena stata battuta in Tribunale nella causa intentata al Corpo degli Spedali. All’Ospizio dei Bastardini le affidarono una neonata da allattare. La bimba aveva la sifilide, si ammalò tutta la famiglia. Le fu offerto un modesto sussidio per comprarne il silenzio
di Giancarlo Dalle Donne, archivista
Chi non ha mai cantato, in gruppo, a squarciagola, in spiaggia o durante un concerto, La locomotiva di Francesco Guccini? Tutti, o quasi, la conosciamo a memoria. Molti, ma forse non tutti, sanno che Guccini racconta una storia vera (con qualche licenza poetica), che avrà il suo epilogo alla stazione di Bologna il 20 luglio 1893.
Il protagonista, “giovane e bello”, è Pietro Rigosi, macchinista ferroviere e anarchico bolognese. Quel giorno vuole fare un atto dimostrativo, una forma di protesta, vuole dare un contributo alla “lotta contro l’ingiustizia”. E allora che fa? Si impossessa di una locomotiva a Poggio Renatico e si lancia su Bologna tentando il suicidio, perché, tanto (come riportano le cronache): “Che importa morire? Meglio morire che essere legato!”
La notizia arriva alla stazione di Bologna: la locomotiva viene deviata su un binario morto, e si schianta, ma Pietro, nonostante tutto, sopravvive. Ci si può immaginare la stazione di Bologna quel giorno, sconvolta da un episodio che forse in pochi si sarebbero potuti immaginare.
E fin qui la storia è abbastanza nota.
È il pomeriggio del 20 luglio 1893. Quello stesso giorno, forse in una sala d’aspetto di terza classe, Amalia Bagnacavalli (nome e cognome: questa è per Micol), una contadina di Vergato, sta aspettando il treno per tornare a casa, nel suo piccolo paesino. Non è contenta: è stata a Bologna per partecipare, in Tribunale, a una causa che la vede coinvolta. Ha osato, con l’aiuto dell’avvocato Augusto Barbieri, di idee socialiste, fare causa al potente Corpo degli Spedali e, in quel grado di giudizio, non ha avuto fortuna.
Cos’era successo? Qualche anno prima si era recata all’Ospizio dei Bastardini, quello in via D’Azeglio, e le era stata affidata una bimba da allattare, come si usava fare allora, dietro un piccolo compenso. Solo che la bimba, abbandonata, era sifilitica e con l’allattamento tutta la famiglia aveva preso la malattia.
Non era certo la prima volta che capitava, e il Corpo degli Spedali, che gestiva l’Ospizio, di solito se la cavava riconoscendo alle donne un piccolo sussidio, pagandone il silenzio. Ma quella volta no. Lei si era ribellata, e aveva fatto causa. Un’altra lotta contro l’ingiustizia. Nella Bologna del tempo, un processo con una vasta eco.
Il finale, imprevedibile e non scontato, lo potete leggere nel bel libro di David Kertzer – La sfida di Amalia (Rizzoli, 2010; ehi… Kertzer è un Premio Pulitzer…) – con il quale ho avuto la fortuna di collaborare. Così, quel giorno, il 20 luglio 1893, alla stazione di Bologna, si intrecciano, in modo diverso ma in qualche modo simile, anche se ancora improntate sull’individualismo e non sull’azione di massa, due personalissime lotte contro l’ingiustizia.
Grazie Giancarlo per aver ricordato questi due episodi della storia bolognese.
La storia delle “vies minuscules” , le vite della gente umile, come quelle raccontate da Pierre Michon, ricevendo il premio “France-Culture” nel 1984. In Italia ricevono minore attenzione.
Bellissime storie di vita reale a Bologna, grazie.