2 agosto 1980: il perché di uno scontro tra magistrati

Nell’ultimo processo sulla strage si sono battuti due modi diversi di intendere la giustizia. Da una parte i Pm: «Non siamo storici. Dobbiamo stare ai fatti, non alle congetture». Dall’altra la Corte, secondo cui invece vanno ricuciti i fili di una trama neofascista che ha insanguinato l’Italia, godendo di vergognose coperture. Altro che storia: questa è ancora cronaca. Eppure la Procura, che ha ottenuto l’ergastolo per Cavallini, ha deciso di fare appello. Per lei i Nar erano “spontaneisti”

di Aldo Balzanelli, giornalista


S’è mai vista una Procura della Repubblica chiedere un ergastolo, ottenerlo, ma ricorrere egualmente in appello contro la sentenza che ha sostanzialmente dato ragione all’accusa, riconoscendo il massimo della pena all’imputato?

Sta accadendo a Bologna e, cosa alquanto preoccupante, il caso riguarda l’ultimo processo per la strage del 2 agosto 1980, quello nel quale il neofascista Gilberto Cavallini era accusato di aver partecipato all’attentato, insieme a Giusva Fioravanti, Francesca Mambro (condannati in via definitiva) e Luigi Ciavardini (condannato in primo grado).

La vicenda ha l’apparenza di una sottile diatriba giuridica sulla formulazione del capo di imputazione nei confronti di Cavallini, relegata in coda alle oltre duemila pagine con la quali la corte d’assise si è pronunciata per la colpevolezza del terrorista dei Nar.

L’accusa considera i Nuclei Armati Rivoluzionari, di cui Cavallini, Fioravanti e Mambro facevano parte, come un gruppo di “spontaneisti”, terroristi ragazzini senza legami con gli apparati dello Stato. La corte ritiene invece questa impostazione minimale e sbagliata, dovendosi leggere le azioni del gruppo terroristico nel contesto storico-politico e anche attraverso i legami che questi avevano con servizi segreti, più o meno deviati, e organizzazioni come la Loggia P2.

Si tratta di uno scontro durissimo tra due vere e proprie concezioni delle modalità con le quali vanno condotte inchieste e processi. È la stessa diversa valutazione che ha convinto la Procura ad archiviare le indagini sui mandanti della strage per l’insussistenza di elementi interessanti, salvo poi vedersi avocare l’inchiesta dalla Procura generale, con conseguente incriminazione di Gelli, Ortolani e compagnia.

L’oggetto del contendere è ben spiegato in una frase pronunciata dall’accusa durante la requisitoria al processo Cavallini che si può sintetizzare così: “Noi non ci occuperemo delle vicende dell’Anello, della P2, della Commissione Moro, di via Gradoli, del delitto di Piersanti Mattarella, di Sergio Picciafuoco… ma soltanto dei fatti che attengono alla responsabilità di Cavallini. Non siamo storici, siamo magistrati e dobbiamo limitarci ai fatti provati, non alle congetture”. La corte d’assise invece si è mossa con tutt’altro atteggiamento, svolgendo una vera e propria “supplenza” nei confronti della Procura, acquisendo documenti, interrogando testi, svolgendo attività istruttoria. Arrivando persino a decidere che la polizia giudiziaria, incaricata delle indagini, facesse capo alla corte invece che, come accade di solito, alla Procura della Repubblica.

Il risultato di questo lavoro sono le oltre duemila pagine con le quali è stata motivata la condanna di Cavallini. Una lettura molto interessante che contribuisce a disegnare un quadro molto definito dell’arcipelago del terrorismo neofascista che gravitava intorno agli autori della strage, oltre a una lettura puntuale delle numerose operazioni di depistaggio delle indagini messe in atto da strutture che facevano (fanno?) capo allo Stato.

Occuparsi delle vicende dell’Anello, della P2, dell’omicidio Mattarella ecc., a differenza di quanto sostenuto dalla Procura, significa riannodare i fili di una trama che ha insanguinato l’Italia per decenni e che ha goduto di supporto e protezione da parte dello Stato. Una trama che non possiamo pensare sia da archiviare negli annali di storia, perché ha dimostrato di essere attiva ancora oggi, visto che le protezioni, i depistaggi, le coperture, gli “smarrimenti di prove” sono continuati fino ai giorni nostri.

Scoprire e mettere in evidenza per esempio che i terroristi neri, durante la latitanza, erano ospitati in un appartamento affittato dai servizi segreti in via Gradoli a Roma, la stessa stradina dove in un altro appartamento dei servizi segreti si trovava il quartiere generale delle Brigate Rosse durante il sequestro Moro, non è “fare storia e non processo penale”.  Significa collocare l’attività dei terroristi dei Nar in un contesto che li indica come esecutori di un progetto eversivo, che ha radici profonde dentro gli apparati dello Stato e che ha convinto la corte a definire quella del 2 agosto come una strage politica, di Stato.


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