Gli sviluppi dell’inchiesta sui mandanti della strage alla stazione nascono da una rilettura di numerosi documenti di altre inchieste e processi. Perché non fare lo stesso per la banda dei fratelli Savi, rivisitando i tanti dibattimenti svolti su quegli episodi?
di Aldo Balzanelli e Giampiero Moscato, giornalisti
La riscoperta che il neofascista Paolo Bellini, sotto inchiesta per strage del 2 agosto 1980, abbia consegnato un fucile all’armeria di via Volturno, la stessa dove la banda della Uno Bianca il 2 maggio 1991 assassinò il titolare e la sua compagna per ragioni tutt’ora misteriose, fa pensare a un collegamento tra le due vicende? No. Il fatto era noto subito dopo l’arresto dei Savi, ma all’epoca Bellini era “solo” un terrorista nero “qualunque”, non uno degli imputati per l’eccidio più grave della storia repubblicana. Com’è invece adesso.
Proprio per questa sua nuova veste probabilmente il legame possibile è una delle tante suggestioni che emergono dalle indagini. Come quella della telefonata tra il padre della “supertestimone” Simonetta Bersani con un amico carabiniere, durante la quale si parla di misteriosi “capi” che avrebbero preso in custodia la figlia alla vigilia delle sue confessioni, risultate peraltro inaffidabili.
Suggestioni dunque, si diceva, visto che un dirigente della Digos, che aveva in gestione la teste, chiarì al processo che erano certamente loro i “capi” a cui si riferiva Bersani. Nonostante ciò tuttavia la Procura ha deciso di aprire un fascicolo su alcuni episodi, per accertare se i Savi e i loro complici godettero di coperture e protezioni, cosa che consentì loro di agire indisturbati per anni. E ha fatto bene. Non perché durante il processo ai Savi non siano state esplorate tutte le piste nel modo più scrupoloso possibile. Lo hanno raccontato nelle nostre interviste sia il pm Valter Giovannini sia il presidente della Corte d’assise Libero Mancuso. E anche l’avvocato di parte civile Alessandro Gamberini ha dato atto a questi due magistrati di aver lavorato con il massimo scrupolo.
La ragione per la quale la riapertura delle indagini è un bene nasce da un’altra considerazione. La banda della Uno bianca fu condannata al termine di un processo lungo e difficile. A fianco del quale tuttavia si celebrarono altri processi sugli stessi fatti. Quello sui “pilastrini”, sulla banda delle Coop, sulla camorra organizzata, su Domenico Macauda, un carabiniere scoperto a inquinare le indagini collocando false prove dopo l’omicidio dei suoi colleghi Stasi ed Erriu a Castel Maggiore, nel 1988.
Tutto questo enorme materiale, insieme alla relazione del Prefetto Serra (quella che definì la questura di Bologna la “peggiore d’Italia”) e all’inchiesta parlamentare, non è mai stato esaminato e valutato nella sua interezza. Non per mettere in discussione la colpevolezza, accertata, dei fratelli Savi e dei loro complici, ma per leggere complessivamente tutti gli atti che intorno a quegli episodi furono svolti da diverse procure e diversi investigatoti, anche in diverse città.
Non vi sono episodi concreti (allo stato delle conoscenze) che legano Uno bianca e 2 agosto, piuttosto è un metodo il possibile legame tra le due storie criminali. Recentemente infatti la Procura generale ha riaperto l’inchiesta sui mandanti dell’attentato alla stazione e lo ha fatto fondando il proprio lavoro proprio sull’acquisizione di moltissimi atti di altri processi (strage di Brescia, omicidio Mattarella, Banco Ambrosiano…) e traendo da questi interessanti sviluppi e spunti investigativi. Questo è stato possibile anche grazie alla digitalizzazione degli atti sul terrorismo nero e le stragi, e non a caso i familiari delle vittime chiedono accada lo stesso per la Uno bianca.
L’auspicio è che la Procura non si limiti come ha fatto nelle indagini sulla strage del 2 agosto (archiviando numerosi fascicoli, poi avocati dalla Procura generale), ma rivaluti tutto il materiale a disposizione, per verificare se nelle pieghe dell’immenso patrimonio di carte, interrogatori, testimonianze, perizie, possa esserci qualcosa capace di spiegare perché i Savi terrorizzarono impunemente per anni l’Emilia-Romagna e le Marche, sparando a nomadi, senegalesi, carabinieri, inermi cittadini in cambio di un misero bottino, certo non tale da giustificare tanta efferatezza. E magari scoprire se qualcuno li protesse. O fece in modo che non fossero scoperti.
Fantasie da romanzo poliziesco? Può darsi, ma la storia ci ha insegnato che la realtà a volte supera la fantasia. Chi avrebbe creduto che i vertici di un servizio segreto avrebbero organizzato un falso attentato ai treni per coprire gli autori del 2 agosto? E invece è successo. Non è solo cronaca. Ormai è storia.
Chiedo scusa, ma permettetemi una doverosa correzione: vittime del duplice omicidio nell’armeria di via Volturno furono la titolare Licia Ansaloni e il suo collaboratore Pietro Capolungo, mio padre.
Grazie
Alberto Capolungo
Pure illazioni stravaganti non suffragate da nessuna prova… cosi’ ci potrebbe essere un collegamento anche con l’eruzione del Vesuvio di duemila anni fa… i componenti della banda della Uno bianca erano assassini schifosi che hanno meritato l’ergastolo, ma agivano per conto proprio e non erano protetti da nessuno. A dimostrarlo sono gli scarsi bottini delle loro rapine, nessun potente sarebbe entrato in una storia in cui c’erano da guadagnare quattro soldi.