Bonaccini e il “feudalesimo democratico”

A Renzi, così come a Zingaretti, il presidente della Regione è legato da antica amicizia e reciproca stima, peraltro mai ritirate, pur senza risparmio di critiche. A prima vista, ce n’è abbastanza per tenerlo al riparo dal repulisti che nel Partito più d’uno ormai invoca. Ma se dovesse rimanere impigliato nelle schermaglie tra opposte fazioni, nelle quali in parecchi sembrano volerlo attirare, nessuno può dire con certezza quale sarebbe l’esito

di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB


“Non so in quale paese europeo, in quale paese democratico del mondo, in Francia, Olanda, Germania, Spagna, Stati Uniti, le forze politiche si organizzano attorno a una persona. Ho sollevato questo punto importante già tre anni fa, quando ho detto che non metterò mai il mio nome su un simbolo di partito, perché questo è uno dei principali problemi del paese. Questi meccanismi creano rigidità e instabilità”.

(Pierluigi Bersani)

A rileggere oggi le affermazioni del deputato Bersani, viene da sobbalzare sulla sedia per l’esattezza e la lungimiranza dell’analisi. Erano i primi di gennaio del 2013, la XVII legislatura era di là da venire, e il compagno Pigi ammoniva così Mario Monti, reo di aver dato vita a “Scelta Civica”, sfortunata creatura politica votata al culto del Professore.

Da allora le cose, se possibile, sono ulteriormente peggiorate, e non solo nel Belpaese. I partiti personali, all’epoca minoranza, sono nel frattempo diventati la norma, tanto che ormai si fa fatica a distinguere un leader dal suo movimento. E se il Pd è rimasto di fatto l’unico partito “impersonale” sul proscenio, con gran scorno di certi ex direttori de L’Unità, lo deve soltanto a quegli anticorpi democratici “naturali” che gli hanno consentito prima di sopportare e poi di espellere il virus personalistico inoculato dall’infezione renziana. Seppure una ricaduta sia sempre possibile…

Anche di Bersani conosciamo la fine. Ma se da un lato le successive peripezie del fu segretario Pd ci ricordano con ineluttabile verità evangelica che nessuno è profeta in patria, dall’altro ci dicono pure che a pensar male del prossimo si fa peccato, ma spesso poi si indovina.

Di questa massima papale, poi pseudo andreottiana, chi tra i lettori vuol bene al presidente Bonaccini farebbe bene a tenere conto, soprattutto in vista delle prossime elezioni amministrative. Perché tra i vari culti personali del momento, complice la pandemia, quello degli italiani per i presidenti di regione sembra essere il più in voga. E questa specie di “feudalesimo democratico”, nel partito impersonale che professa un rinnovato protagonismo di sé stesso e dello Stato, non può che essere mal tollerato.

Non c’è dubbio che di questo zeitgeist localistico, un po’ per dovere e un po’ per scelta, Bonaccini sia stato e resti tuttora un interprete di prima grandezza, pur senza i toni scomposti e le percentuali bulgare di qualche suo pari grado. Ma se da un lato questa tensione autonomistica gli ha consentito di ricacciare i barbari salviniani sull’altra sponda del Po, dall’altro ha contribuito notevolmente ad allontanarlo da Roma e dal Nazareno, ai quali sembrava invece destinato per indiscutibili meriti di guerra.

La storia, si sa, spesso corre più veloce delle ambizioni personali. Oggi Roma è nelle mani di un reggente, Draghi, mentre il centrosinistra pare aver scelto per sé stesso un altro Cesare, Conte, nonostante il machiavellismo cafone di Renzi, novella Caterina  De’Medici nella Notte postmoderna di San Bartolomeo.

Già in autunno, l’olifante del prode Orlando (Andrea) aveva risuonato lungo la via Emilia per sostenere i candidati d’area tra Rimini e Bologna. Non c’è ragione per non pensare che tornerà alla carica. D’altro canto, dopo gli ultimi avvenimenti le alternative per la Segreteria nazionale Pd non sono moltissime: se vuole evitare che  quanto accaduto a Conte e alla coalizione possa ripetersi, l’unica possibilità è darsi alla caccia sfrenata di Renzi e dei troppi che dentro al partito, a livello nazionale e locale, ancora lo rimpiangono e talvolta lo fiancheggiano.

Al rignanese, così come a Zingaretti, Bonaccini è legato da antica amicizia e reciproca stima, peraltro mai ritirate, pur senza risparmio di critiche. A prima vista, ce n’è abbastanza per tenerlo al riparo dal repulisti che nel Partito più d’uno ormai invoca. Ma se dovesse rimanere impigliato nelle schermaglie tra opposte fazioni, nelle quali in parecchi sembrano volerlo attirare, nessuno può dire con certezza quale sarebbe l’esito. Con buona pace del nostro florido Feudo, che è poi la cosa che conta di più.


Un pensiero riguardo “Bonaccini e il “feudalesimo democratico”

  1. I personalismi dei Governatori (già il nome rende l’idea..) si sono amplificati con la gestione della pandemia e la sovra esposizione mediatica.
    In un contesto attuale di elettori/spettatori il rischio di uno stile di comunicazione populista, anche per chi dichiara di esserne immune, è molto forte e percepito come premiante in termini di consenso.
    Il tema dell’autonomia regionale, ad esempio, prima banalizzato e cavalcato per fare la corsa con la Lega, andrebbe ripreso in maniera seria e l’Emilia Romagna potrebbe farsene promotrice.

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