Sarà differente da quella di oggi ed è doveroso chiedersi se la strategia di sviluppo adottata negli ultimi anni abbia portato gli effetti sperati o se vi siano correzioni da apportare, valutandola non solo dal punto di vista della ricchezza creata di per sé ma misurando se e in quale misura questa si sia concretamente trasferita sulle persone
di Daniela Freddi , ricercatrice Ires Emilia-Romagna
Le prossime elezioni amministrative avverranno nella più grande crisi economica e sanitaria globale dell’ultimo secolo, che ha stravolto le abitudini di migliaia di persone, generando nuove prassi lavorative, relazionali e di consumo destinate in buona parte a consolidarsi, ampliando i differenziali socio-economici già esistenti.
Sono inoltre forti le spinte alla trasformazione delle aree metropolitane provenienti dalle nuove tecnologie: dalle piattaforme online fornitrici di beni e servizi allo smart working, poco conosciuto in Italia prima della pandemia e destinato almeno in parte a divenire strutturale, andando a modificare la relazione delle persone con il proprio lavoro e la propria città, tra centro e periferia. Inoltre, grazie al Big Data Technopole, Bologna presto diverrà la sede di una elevatissima potenza di calcolo e professionalità nella scienza computazionale. Si tratta di una grande opportunità, che deve però essere accompagnata affinché diventi un effettivo volano di sviluppo.
A questi elementi dinamici si affiancano gravi problematiche socio-economiche destinate ad acuirsi. Già prima della pandemia era ormai consolidato il fenomeno del lavoro povero, ovvero di persone che pur lavorando non riescono a garantirsi una vita dignitosa. Non si tratta di un fenomeno marginale, interessa soprattutto persone con lavori saltuari e/o a tempo parziale in settori a basso reddito, tocca soprattutto le donne e i giovani e si concentra nei comparti dei servizi, in particolare tra le attività in appalto. I dati sui beneficiari del Reddito di Cittadinanza ci dicono che un terzo di loro ha un lavoro e che a Bologna nel 2020 sono aumentati del 36%, la crescita più intensa in regione dopo Piacenza. A questo si aggiungerà probabilmente la disoccupazione, nel momento in cui non sarà più possibile prorogare il blocco dei licenziamenti.
Bologna non parte da zero di fronte a tali sfide, per molto tempo ha saputo coniugare bene innovazione, capacità di sviluppo, modelli partecipativi di cittadini e lavoratori, welfare. Ma questo è il momento di discutere come aggiornare e, se serve, estendere o modificare gli strumenti fin qui utilizzati. In questo quadro sarebbe necessario focalizzare lo sforzo progettuale su alcuni assi strategici: conoscenza e nuove tecnologie, contrasto al lavoro povero, donne, giovani, riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile.
Rafforzare il posizionamento dell’area metropolitana nell’economia globale e il suo ruolo di riferimento in determinate aree di competenze è fondamentale per consolidare il percorso di sviluppo sul quale Bologna è già avviata. Questo deve avvenire attraverso un interscambio con i centri di formazione locali, a partire dalle Università, le realtà di impresa, il Tecnopolo.
Donne e giovani, i soggetti più fragili sul mercato del lavoro, devono entrare a pieno titolo in questi circuiti virtuosi, sostenuti in percorsi di alta qualificazione ai quali devono però poi corrispondere condizioni contrattuali e salariali adeguate affinché i percorsi di studio recuperino la funzione di ascensore sociale.
Contemporaneamente è necessario agire per contrastare il lavoro povero. Esso non è alternativo alla buona occupazione ma con essa convive, una larga parte si trova nelle filiere degli appalti, anche nell’ambito del settore pubblico. La pressione verso la riduzione dei costi delle attività in appalto, molte delle quali labour intensive, da parte delle realtà pubbliche non può che riverberarsi su bassi salari e una scarsa qualità del lavoro. Da questo a livello locale si potrebbe (ri)partire, rafforzando strumenti già esistenti come il protocollo appalti siglato a livello metropolitano, estendendolo ad altri soggetti pubblici del nostro territorio, promuovendo al contempo la contrattazione di sito.
Una parte sempre più rilevante di lavoro povero è collegato anche all’espansione dell’azione delle piattaforme online nelle nostre città. L’esempio più visibile è quello dei rider ma una quota crescente è legata ad altre tipologie di servizi. È necessario conoscere questi attori digitali e interagire con essi per intervenire sul lavoro povero eventualmente creato e ricondurre i dati prodotti dalla cittadinanza ad una dimensione e utilizzo pubblici.
Infine, il maggiore freno all’autonomia economica e alla buona occupazione delle donne sono ancora oggi i carichi di cura. È necessario potenziare e trasformare i servizi per la non autosufficienza e per l’infanzia. In questo secondo caso significa investire più risorse, sia nello 0-6 che per tutte quelle fasce orarie o stagioni in cui le scuole sono chiuse. La scarsità di scuole a tempo pieno, le lunghe pause estive e la mancanza di servizi in alcune fasce orarie o giorni della settimana, in un contesto occupazionale ad elevata flessibilità oraria, rappresentano enormi ostacoli alla buona occupazione femminile. Il potenziamento di questi servizi deve avvenire però senza generare una nuova compressione di costi e quindi di salari, evitando così di tornare ad alimentare il lavoro povero.
Photo credits: hjrivas
Molto appropriata la definizione di lavori poveri. Lavoro in agricoltura (anche in E-R!) soprattutto nell’alta sostenibilità-qualità (non industriale, labour intensive), raiders, lavori in appalto, cure domestiche, facchinaggio e manovalanza….