Il virus non ucciderà la cooperazione internazionale

Monica Giordani è al vertice di un’associazione che opera in Africa: “Adesso ognuno è portato a guardare più in casa propria, ma il problema é di milioni di persone fragili che non solo non hanno il vaccino, ma non hanno i mezzi per sopravvivere”

di Barbara Beghelli, giornalista


Il terzo settore è stravolto, la pandemia gli ha dato un brusco stop e fare il volontariato nel mondo col digitale è praticamente impossibile,  ma “non abbiamo perso la speranza e lottiamo quotidianamente per far sì che i valori che animano la cooperazione internazionale non finiscano col virus”.

È diretta e schietta Monica Giordani, signora bolognese a capo della Associazione Progetto Mozambico Onlus, dove ha iniziato a collaborare nel 2004 come volontaria e di cui poi, dopo mesi vissuti in Mozambico e la voglia di continuare a occuparsi di questo popolo, ne è diventata direttrice. 

Praticamente tutte le attività della onlus, che ha come unica sede operativa Bologna (via Corticella 156 – sede legale a Sarche, Trento) e conta un centinaio di volontari, ruotano attorno alla città di Quelimane dove è stata costruita la prima biblioteca dei bambini, un centro nutrizionale, un day hospital poi ceduto alla Comunità di Sant’Egidio, un centro di formazione, le scuole materne. Come metodo di cura la onlus ha sempre adottato quanto proposto dal progetto Dream della Comunità di Sant’Egidio, un protocollo basato su trattative tra la Comunità e il governo mozambicano. Per ottenere i finanziamenti l’associazione presenta progetti e partecipa a bandi pubblici: della Provincia Autonoma di Trento, Regione Trentino Alto Adige, Regione Emilia-Romagna, Conferenza Episcopale e Chiesa Valdese”. 

Da dove nasce la volontà di occuparsi del Mozambico?

“Dalla lotta contro l’Aids, che vent’anni fa dilagava e che i mozambicani pensavano fosse uno spirito maligno che entrava nei loro corpi. Con l’arrivo delle medicine hanno visto che il male si poteva vincere, ma fu un’ecatombe perché le mamme, ammalate, mettevano al mondo bimbi che non avevano speranze di vita”. 

E come è arrivata a Bologna la Onlus?

“L’associazione è nata da un gruppo di giovani trentini che faceva formazione con padre Giovanni, entrato a sua volta in contatto con il vescovo di Nampula, anche lui dehoniano. Tutto iniziò con la costruzione di una scuola in quel distretto, nel 2001. Subito dopo padre Giovanni fu trasferito a Bologna, dove già c’era un gruppo di ragazzi che seguivano le missioni. Ma da molti anni noi siamo realtà totalmente autonoma”.

Oggi lei prova a scuotere le coscienze: difficile. 

“Adesso ognuno è portato a guardare più in casa propria che altrove, è legittimo con quel che sta accadendo: morti e contagi in aumento. Ma il problema della nostra associazione è di tutta la cooperazione internazionale e di milioni di persone fragili che non hanno i mezzi per sopravvivere, e quindi va posta la questione”.

Per essere più chiari mancano i soldi per comprare i vaccini, là.

“Esatto. E adesso si può fare molto poco. L’associazionismo però non si può sostituire con l’online e il sistema valoriale deve vincere, sennò finisce tutto e invece noi dobbiamo tenerci strette le nostre persone, il lavoro, i popoli che aiutiamo. Ricominceremo”.

Molti paesi africani non hanno le armi per combattere il Covid. 

“Spesso non hanno nemmeno l’acqua da bere, figurarsi per lavarsi le mani, vivono nei villaggi con poco e niente: sul tutto a Natale i sudafricani sono andati come se niente fosse in vacanza al mare in Mozambico, e hanno portato la variante sudafricana”. 

Un disastro totale.

“Esatto, con la differenza che il Sudafrica i vaccini può pagarseli mentre il Mozambico conta i morti per polmonite senza poterli curare, anche se la Cina ha promesso che fornirà presto i vaccini”.

Da quanto dura questa situazione?

“A ottobre avevamo riaperto la biblioteca, organizzato anche due corsi di formazione sul recupero dei mesi persi, riavviato il centro nutrizionale ma un mese fa ha richiuso tutto per la variante sudafricana. La situazione è fuori controllo anche perché per monitorare occorrerebbe fare i tamponi, ma là non sanno neanche cosa siano. Vanno avanti a Dpcm”. 

Non solo là. E come sono gli ospedali a Quelimane, grande quasi quanto Bologna-città?

“Non esistono le terapie intensive, l’ossigeno né il sistema sanitario nazionale e così non potendo contare sulle cure, il governo previene a suon di chiusure”.

Cosa si può fare oggi?

“Essere forti, non fermarsi coi pensieri, credere che quello che era prima della pandemia sarà ancora. Solo così la cooperazione internazionale vincerà sul virus. E anche sul nostro egoismo”.


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