Petrarca: lo studente illustre che rinnegò Bologna

Tra il 1320 e il 1326 Francesco Petrarca visse e studiò a Bologna. In seguito liquidò quegli anni come tempo sprecato e rivendicò l’abbandono della città come la sua scelta più felice. Eppure il soggiorno bolognese fu decisivo per la sua formazione di letterato e poeta

di Marcello Conti, giornalista


«Da Montpellier ci trasferimmo a Bologna, della quale io non credo luogo più bello e più libero trovar si potesse nel mondo intero. Ricorderai tu bene l’affluenza degli scolari, l’ordine, la vigilanza, la maestà dei professori, che a vederli parevano gli antichi giureconsulti. Dolce ed amaro ad un tempo, tu ben te ne avvedi, è per me il rammentare fra queste miserie quel tempo felice, nel quale (e come accade a me così a te pure avverrà di serbarne viva e indelebile la ricordanza) io là mi trovavo fra gli studenti. Entrato già nell’adolescenza, e fatto più ardito che prima non fossi, ai miei coetanei mi accompagnavo, e con essi nei dì festivi camminando a diporto tanto mi dilungava dalla città che spesso vi si tornava a notte profonda».

È un Francesco Petrarca vecchio e malinconico a scrivere queste righe. È il 1368, il poeta ha 64 anni e basta il titolo della lunga epistola (Seniles, X, 2) da cui sono tratte, Come le cose del mondo vadano sempre di male in peggio, per intendere il cupo pessimismo con cui fu scritta. Il destinatario doveva essere Guido Sette, arcivescovo di Genova, ma soprattutto amico di infanzia e compagno di studi che Petrarca non vedeva da una decina d’anni e che, per colmo di tristezza, non lesse mai questa lettera: morì prima di riceverla. Eppure, in questa lunga e disincantata riflessione sulla decadenza di ogni cosa nel tempo, fa capolino anche questa rievocazione degli anni di studi universitari a Bologna: la solenne autorità degli insegnati, gli ardori giovanili, l’amicizia con gli altri studenti, le spensierate scampagnate per il contado intorno alla città. Tempi felici, insomma. 

Quando Petrarca giunge per la prima volta a Bologna ha 16 anni. È l’autunno del 1320, poco prima del 18 ottobre, giorno della festa di San Luca che all’epoca segnava l’inizio dei corsi. Insieme a lui c’è un precettore, di cui ignoriamo il nome, il fratello minore Gherardo e il già citato Guido Sette. Arrivano dalla Provenza dove il giovane Petrarca aveva trascorso la maggior parte della propria breve vita. Sì, perché il poeta che più di tutti segnerà la tradizione lirica italiana fino ad allora in Italia c’era stato ben poco. Anche se si firmerà sempre “Florentinus” passeranno ancora parecchi anni prima che metta piede a Firenze. Fiorentino –  e pure molto attivo nella vita pubblica della città – era piuttosto suo padre, Ser Petracco: notaio e guelfo bianco, cioè della stessa fazione politica di Dante; e infatti con Dante condivise il destino dell’esilio da Firenze. Si trovava rifugiato temporaneamente ad Arezzo con la moglie nel 1304 quando nacque il suo primogenito Francesco.

Dal 1309 il papato si sposta ad Avignone e così la Provenza diventa un punto d’attrazione per i tanti notabili e funzionari necessari a far funzionare la grande macchina della corte pontificia. Tra questi c’è anche Ser Petracco che si trasferisce con la famiglia a Carpentras. Molto presto il piccolo Francesco viene avviato agli studi giuridici, che inizialmente compie a Montpellier. Ma per portarli a termine ser Petracco decide di mandarlo nella città che era universalmente riconosciuta come il maggiore centro dello studio del diritto: Bologna appunto.

Anni felici per il giovane Petrarca, dicevamo. Ma non per questo sempre tranquilli. In realtà già a pochi mesi di distanza dal trasferimento a Bologna il corso degli studi venne bruscamente interrotto da un evento che ebbe grande risonanza presso l’opinione pubblica della città. Nel marzo del 1321 Jacopo di Valenza, uno studente spagnolo di diritto canonico, fu accusato di aver tentato di rapire la figlia di un famoso notaio, Michelino Zagnoni. Il 30 marzo, dopo un processo brevissimo, Jacopo fu condannato a morte e decapitato. Il fatto suscitò grande indignazione. Per protesta molti studenti e alcuni professori abbandonarono la città dandosi convegno a Imola. A quest’esodo partecipò anche Petrarca. Il Comune di Bologna, preoccupato per l’ingente danno economico che la fuga degli studenti avrebbe causato, avviò subito le trattative per riportarli quanto prima in città. Ma la mediazione dovette risultare piuttosto complicata se soltanto nell’aprile dell’anno seguente i corsi universitari poterono riprendere regolarmente. In quel tempo sappiamo che Petrarca da Imola si spostò a Rimini, poi a Venezia, per tornare infine in Provenza. Solo nell’autunno del 1322 rientra a Bologna per riprendere gli studi.

Studi che non porterà mai a termine. Nel 1326 muore il padre e Petrarca abbandona per sempre gli studi giuridici. I due avvenimenti sono, ovviamente, collegati. Infatti sembra proprio che lo studio della giurisprudenza (e quindi la permanenza a Bologna) fosse una imposizione paterna contro la volontà del futuro poeta laureato che, già all’epoca, desiderava dedicarsi a tempo pieno alla belle lettere.

È Petrarca stesso a confermarcelo nella Posteritati, una sorta di breve autobiografia scritta sottoforma di “lettera ai posteri”: «A Bologna spesi anni esclusivamente per imparare l’intero corpo del diritto civile: essendo un giovane destinato, come molti immaginavano, a trarne grandi profitti, se avessi perseverato. Invece io abbandonai definitivamente quel genere di studi non appena vennero meno le premure dei miei genitori». Insomma dietro agli anni di studio bolognesi c’è il più classico (a quanto pare Petrarca avrebbe fatto tradizione anche in questo) conflitto del giovane poeta: la volontà di dedicarsi alla letteratura che si scontra con i piani della famiglia di avviarlo a una carriera sgradita ma garante di «grandi profitti». Giovanni Boccaccio, da grande narratore quale era, intuì immediatamente il potenziale drammatico dell’episodio: e infatti scrivendo il suo De vita et moribus domini Francisci Petracchi (un trattatello che è sia una biografia sia una celebrazione di Petrarca da parte di un appassionato ammiratore) lo racconta con l’enfasi di uno scontro tra valori opposti: quelli letterario-umanistici di Petrarca contro quelli utilitaristici del padre.

Per quanto riguarda ciò che ci dice Petrarca stesso, invece, non si parla mai apertamente di scontro con il padre. Quello che piuttosto non avrà mai problemi a dichiarare è il suo rifiuto per gli studi giuridici. A ripensarci, anche a decenni di distanza, gli anni a Bologna gli appaiono come tempo sprecato. In una lettera a un amico (Familiares, XX, 2) ad esempio scriverà: «Se mi chiedessi se oggi mi pento di quel tempo, mi troverei in imbarazzo: da una parte, potendolo, non mi spiacerebbe avere fatto esperienza di tutto, ma d’altra parte non posso che dolermi (e me ne dorrò fino alla morte) che tanta parte di questa brevissima vita mi sia così scorsa via. In quegli anni avrei potuto fare qualcosa di più nobile o di più adatto alla mia natura». Insomma, quello che rimane del periodo bolognese sembra essere soprattutto il rimpianto per il tempo che poteva essere speso meglio.

La scelta d’abbandonare gli studi di diritto viene ribadito con particolare orgoglio e convinzione in un’altra lettera che si inserisce in un dibattito a distanza con un non meglio specificato famosus vir (gli studiosi lo hanno identificato con Giovanni D’Andrea, celebre giureconsulto che insegnava a Bologna). Nonostante la sua grande competenza in materia di diritto l’illustre giurista – accusa Petrarca – ha una cultura letteraria molto approssimativa, come rivelano una serie d’errori grossolani da lui commessi e che Petrarca, in una prima epistola (Familiares IV, 15), segnala. Eppure, nonostante una conoscenza della letteratura evidentemente così limitata, il famosus vir si serve abbondantemente di citazioni letterarie per impressionare chi lo legge o lo ascolta e sembrare più colto di quanto non sia.

Nella lettera successiva veniamo a sapere che Giovanni d’Andrea si era offeso per le critiche mossegli e rispondendo rinfacciava a Petrarca, tra le altre cose, d’essere stato un disertore degli studi di diritto. Su questo punto la risposta di Petrarca è – forse anche per non irritare ulteriormente il suo interlocutore – volutamente laconica e lascia molto al sottinteso. Dichiarata con nettezza assoluta è però la felicità della sua decisione: «Quanto infine al tuo rimprovero d’essere stato io un disertore per aver abbandonato sul più bello Bologna e lo studio della giurisprudenza, saprei bene cosa risponderti ma sarebbero probabilmente parole che a te, singolare splendore di questi studi e di questa città, non piacerebbero affatto. E così, dopo averci attentamente riflettuto ho deciso di non dire nulla delle ragioni con le quali sono solito difendermi. Solo questo posso dirti senza timore di litigio: che niente si può fare di buono contro l’inclinazione e che io sono nato per la vita solitaria, non per il foro. E insomma: o io non ho mai fatto nulla di provvido, il che può essere, o di tutte le mie decisioni non dico la più saggia ma la più felice fu proprio questa: d’aver veduto Bologna e di non esserci rimasto».

«La mia decisione più felice»: difficilmente avrebbe potuto rinnegare una città e un periodo della propria vita in maniera più netta. Ma ora forse occorre fermarsi per capire meglio il senso più ampio di queste parole. Infatti, anche nelle sue pagine più spiccatamente autobiografiche, Petrarca non parla mai solo di sé stesso. Fa tutto parte di un grande progetto autobiografico (che comprende la Posteritati, gli epistolari, ma anche le poesie del Canzoniere) finalizzato a costruire una certa immagine di sé: quella di un personaggio per certi versi esemplare, cioè le cui esperienze hanno un significato che trascende le mere vicende personali. In quest’ottica va da sé che queste prese di distanza rispetto al proprio passato non vanno lette come semplici idiosincrasie o rimpianti privati. Sono bensì inscritte in una vasta polemica che riguardava tutta la cultura europea e che sta alle fondamenta stessa di ciò che in seguito verrà chiamato Umanesimo.

Petrarca fu il maestro riconosciuto d’una generazione di intellettuali di tipo nuovo, un numero relativamente ristretto di persone che nei decenni seguenti avrebbe gettato le basi per una rivoluzione della cultura occidentale: i primi umanisti. E di certo Petrarca i panni del maestro li indossò volentieri. Ma farsi promotore d’un nuovo modo d’intendere la conoscenza voleva dire anche combattere quelli vecchi. Da qui le inesauribili polemiche petrarchesche contro diverse tra le più tipiche forme di sapere sedimentate e istituzionalizzate durante i secoli del medioevo. Tra cui la scienza giuridica, del quale Petrarca aveva avuto esperienza di prima mano negli anni a Bologna.

In questa chiave si comprende meglio il dibattito con Giovanni D’Andrea. A essere messo in scena non è tanto il diverbio tra un giurista e un letterato, quanto lo scontro tra Diritto e Letteratura. L’accusa che Petrarca muove a D’Andrea è sostanzialmente quella di sottovalutare la letteratura, pretendere di servirsene senza avergli dedicato uno studio approfondito, utilizzarla come mero abbellimento dei suoi discorsi, riducendola così a serbatoio di belle frasi da usare alla bisogna. In opposizione a un simile rapporto superficiale e utilitaristico Petrarca implicitamente oppone l’approccio del letterato umanista, fondato sullo studio serio e rigoroso. Era insomma una rivendicazione dell’assoluta serietà degli studi letterari. Sottilmente, poi, Petrarca afferma pure la superiorità della letteratura sulla giurisprudenza, in quanto la prima era coltivata senza fini di guadagno, ma solo per arricchimento interiore, la seconda con lo scopo ultimo di guadagnarci esercitando un mestiere.

Se consideriamo che nel sentire comune dell’epoca Bologna era per eccellenza la città degli studi giuridici, dire che la scelta più felice della propria vita era stata abbandonarla significava soprattutto ribadire una presa di posizione culturale («io ho rifiutato la via della giurisprudenza, ho preferito altro») e porre tale scelta alla base stessa del proprio percorso intellettuale.

Si potrebbero citare, tra le pagine petrarchesche, altre dichiarazioni di rigetto verso Bologna, la giurisprudenza e la cultura universitaria in generale (altro bersaglio frequente è Parigi e la filosofia aristotelica che lì si insegnava e che Petrarca disprezzava). Proclami che, abbiamo detto, acquistano senso nel quadro della battaglia culturale che Petrarca condusse per tutta la vita. Ma guardando al di là di questo non si può comunque negare come, nonostante tutto, gli anni bolognesi furono decisivi per la formazione di Petrarca, anche come letterato e poeta.

Innanzitutto è probabile che a Bologna non seguì soltanto corsi di diritto, ma ascoltò anche lezioni di letteratura latina tenute da alcuni dei più illustri maestri dell’epoca. E poi a Bologna, che proprio per via della sua università ospitava la migliore gioventù italiana ed europea, strinse molti legami importanti. Aspetto non secondario anche per quanto riguarda quella cultura umanistica che Petrarca andò elaborando. Perché caratteristica fondamentale dell’Umanesimo, accanto alla preminenza della letteratura e alla riscoperta dell’antichità classica, era la sua dimensione di socialità. Era, cioè, una forma di sapere formata anche dai rapporti, gli scambi, i confronti tra i diversi studiosi. A Bologna Petrarca ebbe modo di cominciare a costruire quella rete di conoscenze che continuò a coltivare per tutta la vita e che sarà una delle fondamenta su cui si edificherà l’Umanesimo. Tommaso Caloiro, Mainardo Accursio, Luca Cristiani, Matteo Longhi, Giacomo Colonna… Sono tutte amicizie che Petrarca strinse a Bologna e nomi che, anche a decenni di distanza, ritroviamo spesso tra i destinatari delle sue epistole.

Ma anche parlando delle poesie gli anni bolognesi furono cruciali. È probabile che prima Petrarca non avesse mai letto lirica in volgare toscano. Nella città universitaria questo genere di poesia era invece ampiamente diffuso per varie ragioni: numerosi erano i toscani che vi abitavano; di Bologna era stato il fondatore del Dolce Stil Novo Guido Gunizzelli e a Bologna aveva studiato e vissuto l’altro importante stilnovista Cino da Pistoia; in città erano tanti gli ammiratori di Dante, tra cui l’insegnante universitario Giovanni del Virgilio che fu corrispondente epistolare col poeta nei suoi ultimi anni di vita e lo invitò a Bologna per ricevervi la corona d’alloro; tra gli studenti esistevano circoli di ammiratori e autori dilettanti della poesia toscana. Un giovane curioso e interessato alla letteratura non poteva non venirci in contatto. Fu quasi certamente in quegli anni che Petrarca per la prima volta lesse e si appassionò ai versi in volgare e forse anche iniziò a scriverne.

Giocando con le ipotesi, dunque, potremmo dire che se Petrarca non avesse vissuto a Bologna negli anni ricettivi della giovinezza, probabilmente non si sarebbe mai messo a scrivere poesia in italiano (la sua primaria vocazione, del resto, rimase sempre quella per il più nobile latino) e pertanto noi non avremmo mai avuto il Canzoniere. Insomma, per quanto la rinnegasse, senza Bologna Petrarca non avrebbe scritto il capolavoro su cui, settecento anni dopo, si regge la sua tanto desiderata gloria letteraria.

L’articolo di Marcello Conti è stato scritto per il blog di CUBo – Circolo Università di Bologna, diretto da Irene Moretti.

In copertina: Anonimo, “Laura e il Poeta”, XVI secolo, Casa di Francesco Petrarca, Arquà Petrarca (Padova).


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