Figli di un Dams minore

«Seguimmo il dito, ma non si vedeva la scritta». In qualche modo eravamo in tanti dietro all’indice di Umberto Eco, immortalato da Enrico Scuro. Eppure quella moltitudine sembra non esistere nella mostra che celebra a Palazzo Sanguinetti i 50 anni del corso di laurea. Manca la storia, oppure non è più quella che vivemmo. Certo, spiccano Andrea Pazienza e Roberto Freak Antoni. Ma gli altri? E quelle mongolfiere che, tra le torri e i palazzi, ancora non ci stanchiamo di inseguire? Dove sono?

di Fulvio De Nigris, giornalista


Noi c’eravamo. Dietro il braccio alzato, oltre il dito di Umberto Eco che in fondo indicava anche noi, oggi irriconoscibili, addossati a un muro sul quale campeggiava la scritta «omoerotismo», la frase premonitrice: «Che la vita ti sorriderà» e «No a… qualcosa» ma non si capisce cosa, perché il resto non si legge. Nonostante il compagno di studi e fotografo Enrico Scuro abbia documentato e messo generosamente a disposizione il suo archivio, quella frase non è completa. O forse lo è, ma in scatti magari non pubblicati.

Eravamo comunque tutti insieme, tanti giovani che come noi vissero quello storico momento e come noi saranno forse tornati a Palazzo Sanguinetti dove vivemmo da studenti per visitare la mostra “No Dams”, in corso fino al 20 giugno, e immergersi nei ricordi di quella storia. Ma questa mostra, in realtà, non ci rappresenta.  Perché non c’è la storia. E quelli non siamo più noi, quello non è più il Dams che abbiamo vissuto. 

Obiettivamente non era facile allestire una mostra per i 50 anni del Dams in epoca di pandemia. Onore dunque al Dipartimento che l’ha realizzata, con un catalogo e un documentario che racconta, illustra, ma…

C’erano tanti modi per celebrare i 50 anni di una esperienza, di un esperimento innovativo fortemente voluto dal grecista Benedetto Marzullo. Si poteva analizzare il corso di laurea partendo dai docenti e dalle discipline che insegnavano. Ma probabilmente mancavano i materiali, le testimonianze dirette, le fonti di quei primi fantastici e indimenticabili anni. Allora tutto quello che è stato raccolto lo si trova in una sorta di monolite, una Babele molto alta, piena di ritagli di giornali e foto, un po’ alla rinfusa, dove ci si perde alla ricerca di un filo conduttore, attraversando piccole stanze con oblò e muri bianchi sui quali si proiettano immagini distorte e sbiadite.

La stessa minuscola cabina da foto tessera che racconta Andrea Pazienza perde di suggestione perché non si capisce il motivo di questo omaggio. In un’altra stanza nel documentario che vorrebbe raccontare il percorso del Dams di questi anni, Roberto Freak Antoni ne è praticamente il narratore. Andrea, sicuramente genio assoluto, Freak, amico geniale. Ma gli altri?  Il Dams è stato un laboratorio di formazione fatto da grandi personaggi della letteratura, dell’arte, della cultura, musica, cinema, spettacolo, comunicazione che non solo non si vedono ma non sono neanche enunciati. 

A parte un po’ di Giuliano Scabia, Umberto Eco, Roberto Leydi e Paolo Fabbri (che arrivò dopo), dove sono Gianni Celati, Luigi Squarzina, Lamberto Trezzini, Lamberto Pignotti, Thomas Maldonado, Maria Signorelli Volpicelli, Claudio Meldolesi, Gianfranco Ferri, Arnaldo Picchi e Luigi Gozzi, per citarne solo alcuni? E, oltre Lucio Dalla, le lauree honoris causa a Jerzy Grotowsky, Pina Bausch ed Eugenio Barba? E le esperienze tangenziali del Living Theatre per non parlare del Treno di Cage che lambì molti di noi studenti in un evento formativo nel nostro corso di laurea?

C’è tanta “roba” in questa mostra e non ci riferiamo ovviamente alle sostanze stupefacenti di cui purtroppo si parlava nei tristi fatti di cronaca che unirono il Dams a delitti irrisolti. E che però troviamo nei ritagli di giornali di questa mostra e addirittura nelle immagini televisive dell’epoca: trasmissioni dedicate al processo Alinovi e testimonianze che in realtà niente hanno a che fare con la storia di quel corso di laurea e i suoi abitanti. 

Si esce un po’ spiazzati da questa opera celebrativa. Chi ha vissuto quegli anni non ci si riconosce: tante promesse, poche speranze. Chi non li ha vissuti potrà forse pensare a un’operazione, anche giusta, di marketing culturale.

Restano le emozioni di un periodo formativo nel quale, per le strade del centro di Bologna, correvamo dietro a piccole, grandi mongolfiere che apparivano e sparivano, in cielo dietro le torri, attenti a non perdere di vista il nostro “incantatore” (quella persona dallo sguardo fanciullesco che era Giuliano Scabia), pensando al nostro futuro. A sognare quell’arte che avremmo voluto agire anche se sapevamo già allora, come ci confermò in seguito lo stesso Marzullo, che il Dams nacque perché “gli Enti locali avevano introdotto le figure degli operatori culturali e chi meglio di quel corso di laurea poteva produrli?”. 

Noi ci inserimmo lì, senza rimpianti. E ogni tanto tra le torri e i palazzi cerchiamo quelle mongolfiere che ancora non ci stanchiamo di inseguire…


2 pensieri riguardo “Figli di un Dams minore

    1. Grazie cara Angela,torna. Ricordo infatti nel 1977 una manifestazione in piazza Maggiore con Stefano “sbarbo” Cavedoni (Skiantos) che si buttava con il pugno chiuso contro il portone del Comune al grido:”Zangheri perdonaci”…

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