«I sanitari che non si vaccinano resteranno senza stipendio»


Il direttore generale dell’Ausl Paolo Bordon racconta la sua esperienza in prima linea contro il Covid a un anno dal suo insediamento. Spera nella massima adesione alla campagna vaccinale per contrastare la variante Delta, anche se afferma tristemente che il taglio delle forniture di Pfizer rallenterà le operazioni dopo che «nei prossimi giorni raggiungeremo il 60% di copertura della popolazione della provincia con almeno una dose». Si cerca anche di raggiungere le persone senza fissa dimora. E sui contrari all’immunizzazione non risparmia le critiche: «Il personale sanitario non deve essere il diffusore del virus. È immorale e inaccettabile»

di Giorgio Filippo Pirani e Medea Calzana, giornalisti


Paolo Bordon lavora a Bologna da poco meno di un anno. Nato nel 1963 a Rovigo, ma friulano di formazione, ha assunto la carica di direttore generale dell’Ausl a luglio 2020 dopo essere stato direttore generale dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento.

Ma, nonostante sia qui da diversi mesi, ammette di non aver ancora potuto conoscere a fondo Bologna, causa lavoro e problemi a girare liberamente a causa del Covid. «Ma rimedierò», afferma durante l’intervista. «È una città molto viva e allegra, dove è esaltata la gioia di vivere e ho scoperto un Appennino che non conoscevo. Mi hanno cercato con insistenza, all’inizio avevo detto no poi alla fine ho accettato».

Cosa ha insegnato l’emergenza Covid? Come deve cambiare la sanità del futuro?

«Spero abbia insegnato che è importante avere una sanità pubblica forte. Bisogna potenziare i servizi sul territorio e capire che il lavoro va fatto dialogando con i professionisti e con un approccio multiprofessionale anche sul Covid. Stiamo pensando per esempio di attivare dei nuovi servizi per seguire le persone che si sono ammalate di Covid nella prima ondata, laddove abbiamo registrato alcuni bisogni da parte loro di una riabilitazione respiratoria. Bisognerà quindi lavorare per il post Covid con un approccio multiprofessionale, con un gruppo di medici specializzati così da poter seguire meglio queste persone».

 Ritiene rischiosa la scelta di eliminare l’uso della mascherina all’aria aperta?

«Per come sta andando ora la diffusione del virus non ha molto senso tenere la mascherina all’aria aperta. Se sono in una strada deserta il rischio di contrarre il virus è pressoché impossibile. Ha senso invece nei luoghi chiusi se non sono areati, come anche in un luogo all’aperto ma in un posto affollato. È però un po’ preoccupante vedere le scene allo stadio, come la partita di lunedì a Budapest con tutti i tifosi vicini e senza mascherina. Stessa cosa con il concerto a Maiorca, con le persone che erano all’aperto ma tutte accalcate. Infatti ora nell’isola c’è un focolaio ».

Come vi state organizzando per affrontare il post-Covid? Ci sono delle attività che verranno recuperate, come i controlli per la prevenzione dei tumori e gli interventi chirurgici non urgenti?

«Si, abbiamo iniziato un percorso di confronto già durante la pandemia e faremo dei cambiamenti alla nostra organizzazione: la creazione di un dipartimento di chirurgia generale più snello, poi uno di specialistica e anche un reparto solo per medicina e cardiologia, così da lasciare quello di riabilitazione a sé stante. Adesso che la pressione del Covid è più leggera, verranno riprese alcune attività che avevamo sospeso. La parte della chirurgia ha subito delle limitazioni pesanti, con anche una riduzione del 50%, mentre sono stati sempre garantiti gli interventi legati a patologie oncologiche o interventi non rinviabili. Purtroppo, in altri casi ci sono anche arretrati di 4/5 mesi. A ottobre 2020 eravamo in pari, ma poi con la terza ondata siamo di nuovo tornati in ritardo».

A quasi un anno dall’inizio del suo incarico, qual è stato il momento più difficile che ha vissuto nelle vesti di direttore generale dell’Ausl di Bologna? E quello più soddisfacente?

«Sicuramente a marzo, quando la terza ondata ha portato più di 1.400 persone ricoverate. Ero molto preoccupato, addirittura abbiamo dovuto riconvertire all’ospedale Maggiore un blocco operatorio di sei sale apposta per l’emergenza intensiva legata al Covid. È stato il momento peggiore, ma al tempo stesso anche il più soddisfacente, perché al mio fianco avevo persone incredibili che hanno dato l’anima e mostrato passione e attaccamento al lavoro. Mi ha fatto sentire orgoglioso di lavorare con loro».

Cosa vorrebbe fare in futuro in qualità di direttore dell’Ausl?

 «Non occuparmi più del Covid. (ride, ndr). Vorrei occuparmi di temi e bisogni della gente, come la possibilità di implementare le case della salute e fare dei progetti molto belli visto che qua ci sono tutte le condizioni organizzative e professionali per farlo. Su questi temi abbiamo lavorato poco e ora che stiamo ripartendo ci dedicheremo a questi».

 Il taglio delle forniture di Pfizer previsto per luglio metterà in difficoltà la campagna vaccinale?

«Purtroppo sì. Noi abbiamo avuto un giugno straordinario dal punto di vista delle consegne dei vaccini, siamo passati da 30mila vaccinazioni a settimana a 70mila. Nei prossimi giorni raggiungeremo anche il 60% di copertura della popolazione della provincia di almeno una dose vaccinale. Un punto avanti la media regionale e due quella nazionale. Ma adesso che a luglio ci sarà una riduzione delle forniture di Pfizer, saremo costretti, già da oggi, a bloccare le prenotazioni, le agende sono sature fino a fine agosto. È triste come cosa, mi piange il cuore che se un ventenne, che fa parte di una fascia che oggi ha aderito per meno del 50% e che magari domani si convincerà a vaccinarsi e andrà al Cup, non si troverà una data in agenda per lui. Dovremo un po’ ragionare su come fare».

È di questi giorni la notizia che stanno partendo le procedure per i medici che non si sono vaccinati e c’è chi ha annunciato che farà ricorso al Tar.

«È un po’ triste parlare di queste cose, perché chi lavora in questo settore non dovrebbe avere bisogno di un obbligo. Oggi nel personale sanitario ci sono 300-400 su 9.400 che non hanno al momento una giustificazione riconosciuta per non vaccinarsi. Di questi, ci sono anche 17 casi di persone che mi hanno scritto nero su bianco che non si vaccineranno. Tra chi non lo vuole fare per scelta ci sono anche quelli che affermano che hanno motivi sanitari: per quest’ultimi, una commissione interna valuterà se sono casi reali oppure no. Non vedo nessuna ragione di questa scelta da parte dei no vax, è come fare una battaglia tra pensare solo a se stessi e chi invece pensa al sistema, alla comunità. E noi non possiamo permetterci di avere persone che pensano solo a sé: fatto impensabile poi per chi ha lauree in scienze mediche».

Che tipo di competenze ha l’Ausl su questo tema e che tipo di azioni può fare?

«C’è una legge che afferma che, laddove uno non si presenta a un appuntamento vaccinale, ha due possibilità: o viene collocato da un’altra parte, dove può svolgere il suo mestiere, ma isolato dai pazienti, oppure viene sospeso dalla retribuzione. È un tema scivoloso, ma ho trovato grande solidarietà da parte del settore sindacale, che ci ha detto di non inventarci dei posti di lavoro inutili per salvaguardare il posto di lavoro del personale medico che non vuole vaccinarsi. Io farò quello che la legge mi dice di fare e se uno non è ricollocabile verrà sospeso dalla funzione e dallo stipendio. Noi oggi non possiamo permetterci di essere i diffusori del virus. È immorale e inaccettabile. Un paziente che entra in un reparto deve essere certo che nessuno di quelli che lo prenderà in cura potrà infettarlo per essersi sottratto al vaccino».

Che tipo di restrizioni pensa che saranno necessarie per contrastare l’avanzata della variante Delta?

 «Più che restrizioni mi aspetto la massima adesione alla campagna vaccinale. Abbiamo condotto insieme a UniBo degli studi con dei modelli previsionali, se l’85% della popolazione avrà completato il ciclo vaccinale noi non avremo effetto con la variante Delta. Purtroppo, è difficile arrivare a questo numero, quindi degli effetti li avremo. Speriamo solo il meno possibile».

Cosa comporterà nella campagna vaccinale la decisione di anticipare i richiami agli over 60 per AstraZeneca?

«Sugli over 60 siamo messi molto bene, c’è stata grande partecipazione da parte di tutti e le scene degli anziani in fila davanti alle farmacie ora sono solo un ricordo. C’è preoccupazione invece sugli under 60, in particolare dai 45 anni in giù. Quando però si arriva alla fascia dai 40 ai 20 l’adesione è una su due e questo è un problema, dovremo andare noi a cercare la gente con delle iniziative. Abbiamo bisogno che tutti facciano sensibilizzazione, come il medico di base ma anche il mondo della scuola, visto che a settembre i licei e gli istituti scolastici riapriranno».

Cosa può fare l’Ausl per raggiungere le persone senza fissa dimora o richiedenti asilo, che spesso non sono persone che non vogliono farlo ma non possono farlo per motivi burocratici?

«Questo tipo di popolazione difficile la stiamo già cercando, utilizziamo dei mezzi mobili e somministriamo loro il vaccino monodose Johnson & Johnson, visto che poi è difficile rintracciarli per una eventuale seconda dose. Non vaccinare questi soggetti è un problema sanitario quindi li andiamo a cercare e provvediamo a vaccinarli. Certo non possiamo obbligarli, ma gli spieghiamo perché è bene farli. Per fare questo, lavoriamo molto con le associazioni di volontariato».

Ci sono dei progetti per il futuro per riformare il lavoro del medico di base?

«A tal proposito mi aspetto che a livello politico si affronti questo tema, perché pensare che tutto resti così vuol dire mettere la testa sotto la sabbia. Noi abbiamo degli straordinari medici di base, ma bisogna costruire delle condizioni affinché possano lavorare assieme a varie figure e non lasciarli abbandonati a se stessi. Alcuni comuni di montagna hanno difficoltà a trovare un medico di medicina generale, nei casi in cui uno preferisce andare a lavorare a Bologna invece che da un’altra parte. Va riprogettato un mondo che non è più quello di una volta, visto che dal punto di vista sanitario sono cresciute molte professioni».

I medici di base hanno lamentato nei giorni scorsi alcune problematiche legate alla distribuzione dei vaccini, dove si aspettavano 24 dosi settimanali di vaccini e invece ne hanno ricevuti tra le 6 e le 12.

«In questa faccenda ci sono stati alcuni problemi. Noi non avevamo tanti vaccini e dicevamo loro: “Io ti do i vaccini ma tu mi dimostri che hai gli appuntamenti delle persone, così da non sprecarli”, non poteva funzionare che davamo i vaccini e poi loro cercavano i pazienti. Ci sono stati quindi dei problemi di interpretazione. Noi creiamo dei punti vaccinali e mettiamo a disposizione dei vaccini in base alle persone che hanno fatto richiesta vaccinale, non possiamo permetterci di dare vaccini a un medico che magari non lo utilizza per alcuni giorni e facendoli così deperire».

Ci sono state anche critiche sul registro dei vaccinati, per loro non consultabile in tempo reale.

 «Qui ci scontriamo con il tema della privacy, non possiamo permettere di dare queste informazioni senza il consenso del cittadino. I medici possono solo vedere dal fascicolo chi è vaccinato e chi no. Abbiamo fatto un incontro venerdì per chiarirci e chiesto loro di riuscire a convincere i sessantenni, quelli che non si sono ancora vaccinati, a fare il vaccino con il Johnson & Johnson, poi lavoreremo per l’autunno con un vaccino nuovo che sarà da dare come dose di richiamo a tutti quanti».

Qual è l’impegno che si può prendere per contenere il fenomeno del personale infetto all’interno degli ospedali?

«Abbiamo già attuato un forte cambiamento organizzativo. Con il direttore delle Malattie Infettive del S.Orsola Pier Luigi Viale abbiamo creato una struttura interaziendale riguardante le malattie infettive. Dovremmo poi lavorare meglio sui protocolli e le procedure, da questo punto di vista è bene prendere esempio dai paesi anglosassoni. Serve accuratezza nel prescrivere antibiotici che vanno dati solo quando davvero ce n’è bisogno. Un uso improprio aumenta la farmacoresistenza e quando poi serve davvero l’antibiotico non funziona più».

Quanto ci sta costando la battaglia contro il Covid?

«Tantissimo, circa 50 milioni di euro solo come provincia di Bologna e come regione qualche centinaio di milioni. I costi sono legati all’acquisto di dispositivi di protezione, farmaci e soprattutto più personale. Abbiamo dovuto assumere giovani infermieri e medici e neanche specializzati, tutto ha generato costi e mancavano i ricavi».

Il sistema sanitario bolognese ha delle debolezze?

 «Bisogna consolidare il sistema delle rette territoriali che ancora ha delle eccellenze, ma ha bisogno di manutenzione. Va poi completata l’offerta delle case della salute e la necessità di rinnovare tecnologie ospedaliere, dato che alcune di esse sono datate. Per il resto il sistema emiliano-romagnolo è tra i migliori in Italia. Poi come tutti i sistemi apprezzati c’è il rischio dell’autocompiacimento e il confronto con gli altri sistemi sanitari italiani è stimolante, però partiamo da livelli alti».

Milena Gabanelli qualche giorno fa aveva fatto il punto della sanità lombarda, facendo notare una contraddizione tra sanità pubblica e privata. In Emilia-Romagna com’è la situazione?

«Devo dire che è ben equilibrata, nel senso che c’è ci sono ospedali privati ben strutturati e che fanno anche cose complesse, anche se chiaramente lavora su operazioni programmate e non sull’urgenza. Devo dire però che la collaborazione che c’è adesso nella fase di partenza per noi è imprescindibile. Conosco molto bene il modello lombardo e là pubblico e privato si parlano molto poco. Lì il privato ha una forza incredibile, con professionisti di ottimo livello, il problema però è che si accaparra solo le prestazioni remunerative e il resto se lo deve sobbarcare il pubblico. È un po’ sproporzionato il sistema. Qui c’è maggior equilibrio e si sente, soprattutto nell’area di Bologna. C’è proprio una cultura nel lavorare assieme e discutiamo su questi temi in ottima partnership, rinunciando anche a guadagni per dare una mano nella gestione del Covid e la gestione di parte dei pazienti della pandemia».

Il sistema sanitario nazionale ha sofferto molto a causa dei continui tagli. Che cosa servirebbe?

«C’è stato un continuo taglio, purtroppo anche nelle regioni già più deboli e quelle del Centro-Sud. Hanno avuto poi la “fortuna” che il Covid non le ha falcidiate perché erano sistemi debolissimi e non sarebbero stati in grado di proteggersi. In questi casi il lockdown è stata la mossa migliore, visto che non sarebbero riuscite e sopravvivere nella situazione che si era creata a marzo 2020. Un sistema come quello della Lombardia, che ha degli ospedali potentissimi e conosco molto bene quell’eccellenza europea che è l’ospedale Papa Giovanni di Bergamo, è andato in crisi. non oso immaginare cosa sarebbe successo in un sistema sanitario di qualche altra regione come la Calabria o altre più deboli».

È di questi giorni la notizia della riapertura del punto nascita ad Alto Reno Terme. C’è intenzione di aprirne altri?

«Non è proprio corretta la domanda, non è la riapertura ma è la presentazione di uno studio di fattibilità. Nel senso che la riapertura non dipende da noi, o almeno solo in parte, ma l’autorizzazione la dà Ministero della Salute. Noi ad oggi un punto nascita ad Alto Reno Terme non potremmo aprirlo perché non si rispettano alcuni parametri, salvo deroga. Se ci sarà attiveremo questo percorso, altrimenti non lo apriremo».

Le piacciono le serie tv sui medici? E quali sono i suoi libri preferiti?

«Mi piacevano anni fa con Er – Medici in prima linea, però per saturazione ora non le guardo più. Di libri leggo ultimamente dei gialli, altrimenti quelli che trattano di corsa, come quello di Mario Kovacic e della sua esperienza da podista».

 Con le riaperture, qual è stata la cosa che le ha dato più soddisfazione riconquistare?

«La libertà del movimento, quello che sarebbe il naturale diritto di ognuno di noi. Invece per riuscire a limitare questa pandemia abbiamo dovuto fare delle limitazioni alla circolazione e all’incontro con le persone. Adesso seppur con attenzione è tutto un altro mondo rispetto a cinque mesi fa».

L’intervista a Paolo Bordon è stata realizzata per Quindici, il quindicinale del Master in Giornalismo dell’Università di Bologna.


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