Dopo gli interventi di Prodi, Franzoni, De Martino e Mosconi, prosegue la pubblicazione delle nostre Idee del Futuro che vogliamo. A seguito della pandemia da Covid-19, la modificazione radicale dell’uso della casa ha comportato anche una nuova percezione dello spazio urbano. La dimensione minima di urbanità non è più il quartiere e la vita sociale, educativa, culturale, ricreativa, sportiva deve potere avvenire più prossima ai singoli luoghi dell’abitare. Altrimenti la pigrizia, unita a un’insicurezza più raccontata che percepita, trasforma inavvertitamente le case in prigioni
di Piero Dall’Occa, Piero Orlandi e Piergiorgio Rocchi, urbanisti
A proposito delle periferie delle città italiane si dice che sono necessarie opere di ricucitura del tessuto urbano, per significare che si deve intervenire con piccoli, puntuali e diffusi interventi e non con riprogettazioni e trasformazioni complessive del loro territorio.
Parlare di ricucitura presuppone che tra il centro storico e le periferie che gli sono cresciute attorno sia avvenuto uno strappo che va riparato per tornare ad un tessuto omogeneo e senza soluzione di continuità. Il termine però è fuorviante perché non c’è nessuno stato precedente a cui fare ritorno e non c’è stato nessun evento traumatico da ricomporre. Il centro storico e le periferie sono realtà molto diverse, difficilmente raffrontabili, e forse per questo impossibili da ricucire.
Per restare nella metafora del tessuto, la trama del centro storico è omogenea, compatta, disegnata con cura, come fosse il tema centrale di un tappeto persiano. Subito oltre il tessuto inizia a mostrarsi sfilacciato, con pochi accenni di disegno qua e là, fino alle frange estreme che sono filamenti incolori in balia di una anche piccola folata di vento. La città appare più un’opera incompiuta, magari a tratti rimaneggiata, ma non il risultato di una forzata manomissione. Ciò che assicura al centro storico il valore di un disegno ben ordito è il tempo. È il tempo che nei secoli ha tessuto la sua fitta trama per raccontarsi nella città, per lasciare segni del suo trascorrere. La sua storia appunto.
Le periferie italiane sono nate nel dopoguerra, esito dell’urgente ricostruzione postbellica e della necessità di fare fronte al forte inurbamento di nuova popolazione proveniente dalle campagne o da altre regioni. Rispetto al centro storico le periferie mancano certamente di tempo, ma ciò non significa che sono fuori dalla storia. Lo sguardo classico, neorealista e pasoliniano che vede le periferie come un insieme quasi coerente di case popolari e fabbriche, ne ha colto il tratto che, dal punto di vista architettonico e urbanistico, è già storico, e la città che porta questi segni è un patrimonio da conservare, prova ne sia il riconoscimento Unesco dato anche al portico del “Treno” della Barca a Bologna.
La periferia degli anni Cinquanta si è espressa in un modo suo proprio, autonomo dal centro storico. Sono stati grandi architetti a codificare il linguaggio dell’Ina Casa. Per questi suoi caratteri deve essere riconosciuta, apprezzata, frequentata. C’è stato un periodo a Bologna, intorno agli anni ‘80, nel quale si voleva portare il centro storico in periferia perfino fisicamente, costruendo in stile antico finti quartieri pubblici o cooperativi, con archi e portichetti, persiane e tetti di coppi, pensando in questo modo di dare alla periferia uno status di quasi-centro. Oggi potrebbe essere inteso come opera di ricucitura. Al contrario, i momenti “vincenti” delle periferie sono stati quelli in cui esse esprimevano la propria personalità con le torri di Tange e le chiese di Lercaro. Perfino il tanto criticato Borgo Masini ha avuto almeno un merito: di portare le forme moderne tipiche della periferia visibilmente a ridosso del centro.
Qualcosa di concettualmente simile – pur se auspicabilmente con maggiore qualità – dovrebbe farsi anche adesso: usare le aree “trasformabili” prossime ai limiti del centro antico per creare connessioni con la città moderna, ma ribaltando il verso: non deve essere il centro che va in periferia, ma la periferia che accerchia il centro, con parchi, servizi pubblici (in forme rigorosamente contemporanee e esibite e non mistificate o nascoste), piste ciclabili, mezzi di trasporto pubblico protetti e veloci. I tre punti dei quali si discute da tempo, i Prati di Caprara, la Staveco, la caserma di Porta San Felice sono gli elementi che meglio si prestano per avviare questo capovolgimento di reciproche relazioni tra centro e periferie.
Riconoscere e fare emergere il valore storicizzato delle periferie, rafforzare le loro “personalità” sono obiettivi che non intendono certo creare un illusorio allungamento del loro tempo. Le periferie rimangono comunque povere di tempo, di quello passato e di quello presente, necessari entrambi per risolvere i contrasti sociali ed etnici, a volte molto forti, che le abitano.
Riprendendo la metafora del tessuto, quello urbano si intreccia, ma meglio sarebbe dire fa da supporto, con un altro tessuto, quello sociale. Sono come due trame, incomplete, che si sovrappongono ma che, viste dall’alto, potrebbero formare un disegno unitario. Nel caso delle periferie è necessario pensare invertito il rapporto che lega tra loro le due trame: è la trama sociale a potere (dovere?) produrre effetti significativi su quella urbana, non più il contrario. E questa inversione può diventare l’elemento che, come è stato il tempo per il centro storico, ritesse la trama sfilacciata delle periferie urbane.
I recenti mutamenti tecnologici, antropologici, sociali hanno trasformato in modo radicale l’uso della casa. Era il luogo di riposo e di riunione famigliare all’inizio e al termine delle giornate, di lavoro o di studio, e la vita attiva si svolgeva quasi esclusivamente fuori dalle sue mura, per fare acquisti, andare al cinema, al ristorante o fare sport in palestra. Oggi la casa può ricevere al suo interno tutto ciò che prima spingeva, o costringeva, a uscire di casa, cibo, oggetti di acquisto, film. Con la pandemia del Covid-19 all’elenco si sono aggiunti anche il lavoro e lo studio.
La modificazione così radicale dell’uso della casa ha comportato anche una nuova percezione dello spazio urbano. La dimensione minima di urbanità non è più il quartiere, troppo grande e dispersivo. La vita sociale, educativa, culturale, ricreativa, sportiva deve potere avvenire più prossima ai singoli luoghi dell’abitare, altrimenti la pigrizia unita a un’insicurezza più raccontata che percepita trasforma inavvertitamente le case in prigioni.
Sono necessari interventi minimali, piccoli spazi aperti per lo sport e il tempo libero, brevi tratti di strade pedonalizzate con mercati rionali, tutto a portata di un vicinato prossimo. Vedi la città dei 15 minuti, paradigma sviluppato dall’urbanista franco-colombiano Carlos Moreno e applicato dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo. Inoltre piantare alberi e ottimizzare il tempo di percorrenza per accedere ai vari servizi pubblici comporta anche, come effetto collaterale, e non di poco conto, l’abbassamento dei livelli di inquinamento e risponde all’urgenza che l’ambiente richiede.
Ci sono tanti modi di leggere il tessuto urbano e il nuovo Pug (Piano Urbanistico Generale) cerca di declinare questa lettura differenziale. Ma il nuovo strumento “urbanistico” frutto di una legge regionale (la 24 del 2017), molto più letterario che operativo e dove la parte descrittiva è sovradimensionata rispetto a quella normativa, in realtà seppellisce la disciplina urbanistica lasciando in mano ai privati, attraverso i cosiddetti “accordi operativi”, la gestione del futuro insediativo della città. Per estremizzare l’eccessiva descrizione di strategie maschera l’assenza di una visione complessiva dell’area metropolitana e finisce per promuovere ancora il processo, in atto, della sua privatizzazione. Pertanto la necessità di affrontare i temi che le periferie urbane sottopongono alla pianificazione urbanistica, per come questa è congegnata oggi, manca di uno strumento adeguato.
Nulla di nuovo rispetto alla pianificazione precedente visti gli effetti di certi Poc progettati anni fa e che solo ora stanno riversando sulla città i loro nefasti effetti in termini di eccessive quantità edilizie, che potrebbero produrre, paradossalmente, nella loro evidente caratterizzazione di “addensamenti”, deprecabili cali nella qualità insediativa.
L’unica garanzia per poter lavorare in una prospettiva di superamento delle differenze sociali e territoriali, e per avviare quegli interventi urbani alla nuova scala di vicinato di cui più sopra si è detto, è rafforzare la città pubblica. Vedi per esempio il tema dell’acqua che assieme a quello del verde, le così chiamate infrastrutture verdi e blu, vanno pensate alle diverse scale a partire dal singolo edificio per diventare il collante del sistema di aree pubbliche e verdi della città, uno tra i pochi obiettivi interessanti presenti del Pug. Ma soprattutto è anche l’unica garanzia per operare nell’ottica emergenziale della lotta al contrasto dei devastanti effetti conseguenti al cambiamento climatico.
Photo credits: Adriana Radu