Siamo entrati nell’Era della finta disintermediazione: saltano gli organismi di mediazione tradizionale, entrano nuovi, ma meno decifrabili, organismi di mediazione subdola. Ecco perché è bene che del web si impari a usare il meglio. Cantiere Bologna vuole essere un luogo sicuro e protetto per la circolazione delle idee che servono alla città, in cui nessuno è escluso a priori o per partito preso, e tutti hanno pari dignità, se hanno qualcosa da dire. Ecco perché esistiamo
di Giampiero Moscato e Aldo Balzanelli, giornalisti
La “democrazia del web”, si diceva. Eppure mai come in questa Era dallo sviluppo vertiginoso dei mezzi di comunicazione è stato così difficile comunicare e distinguere il vero dal falso, e anche l’utile dall’inutile.
La moltiplicazione senza regole dei media e la proliferazione delle fonti di informazione sono, teoricamente, un aiuto poderoso alla libera circolazione delle idee. Purtroppo la storia è molto più complicata e assai più deludente. Quando le voci sono tantissime, troppe, e quasi tutte non certificate diventa poi difficile gestire, per tutti noi che abbiamo limiti di tempo e di attenzione, la mole di messaggi (sempre più “urlati”, per farsi sentire: chi parla con garbo spesso sparisce) che in ogni istante della nostra vita iper-connessa ci giunge.
La tecnologia aiuta, ma in qualche modo opprime. Finita la fase della mediazione di massa (non del tutto estinta, ma non sta molto bene), è successo un fatto nuovo e per alcuni versi devastante. Il medium non è più il messaggio. Il medium nel terzo millennio siamo noi. Tutti noi. Giornalisti e lettori contemporaneamente, nello stesso istante in cui accendiamo uno smartphone o un pc: fonti e fruitori di notizie insieme, possiamo far sapere al mondo che è successo un fatto importante ben prima che lo vengano a sapere, e dunque a divulgare, i mezzi di comunicazione di massa tradizionali.
Facebook, Twitter, Instagram, Youtube, TikTok, Pinterest, Snapchat hanno fatto man bassa di ogni tipo di informazione circolante nell’umanità e ora sono loro a “controllare”, non certo a favorire, la democrazia. Lo fanno quasi senza notizie di propria produzione. Non solo saccheggiando gli organi dell’informazione tradizionale – qualche Paese, compreso il nostro, sta legiferando per porre limiti a questa rapina sistematica, imponendo una retribuzione del lavoro giornalistico e editoriale utilizzato finora gratuitamente, ma con molto ritorno economico, dalle piattaforme multinazionali – ma attingendo alle foto, ai video e ai testi (e dunque alle notizie) che ognuno di noi “regala” al proprio social network, che poi diventa proprietario di ciò che pubblica.
E a lui, al social, che vanno davvero i like, quella manifestazione di consenso che così facilmente possiamo esprimere ma che è il modo in cui l’algoritmo che governa il web ci incasella, carpisce i nostri gusti, le simpatie, le preferenze, le esigenze di consumatori. Grazie a quei like i social network ricevono i ricavi della pubblicità (miliardi di euro ogni giorno) e noi in cambio riceviamo un condizionamento pesante dei nostri comportamenti. I network sanno che cosa ci piace e ci fanno arrivare direttamente sul telefonino solo quello che ci gusta, evitandoci quasi del tutto quello che sembriamo ignorare e quello che disprezziamo.
Gli effetti sono evidenti. Un paese come il Galles, che non ha file di immigrati alle porte e ha ricevuto dall’Unione Europea ben di più di quanto ha versato alle casse di Bruxelles, ha votato per la Brexit, per l’uscita dall’Ue sulla base di fake news (forma elegante e sassone per dire bufale), come ha dimostrato nel celebre discorso al TED di Vancouver Carole Cadwalladr, la cronista dell’Observer che svelò lo scandalo di Cambridge Analityca (e che è stata bannata a vita da Facebook per questo). Semplicemente la massa di like ha fatto circolare sempre più quelle finte notizie (spesso postate da troll stranieri) sulle “orde di immigrati che rubano il lavoro”, nascondendo fatti cruciali per la verità, come le nuove stazioni e le linee ad alta velocità o le nuove scuole, sorte in luogo di miniere dismesse) e finanziate, pensa un po’, dall’Unione Europea. Il Galles è uscito dalla Ue perché male informato.
L’allarme è grande anche in Italia: i giornali tradizionali soffrono. La gente li compra sempre meno (“tanto c’è il web, mi informo sulla rete”) e dunque sono sempre meno influenti ma soprattutto più deboli: con minori risorse sono sempre meno capaci di raccontare il mondo e spesso inseguono, scimmiottando, quelle reti sociali che non solo li rapinano, ma li stanno spegnendo.
Eppure la mediazione di massa a qualcosa serve. Innanzitutto a farci sapere i fatti: tutti, non solo quelli che ci piacciono. Perché è dall’insieme delle notizie che si forma un’opinione pubblica matura. Qualcuno (pensate a Grillo, tra gli altri? Indovinato) ha raccontato che i media mentono, ha organizzato campagne d’odio contro la stampa, ha costruito sistemi di gogna pubblica per chi scriveva di lui e del suo movimento in maniera non gradita.
Basta leggere i commenti sui social: ogni giornalista che racconta fatti sgraditi alla propria parte viene insultato, minacciato, deriso. Ben che gli vada gli danno del servo. Beninteso, non tutti i giornalisti sono a posto con la coscienza. Ma quale categoria umana non contempla tra le sue file farabutti e venduti o anche solo incapaci?
Resta il fatto, grave, che siamo entrati nell’Era della finta disintermediazione: saltano gli organismi di mediazione tradizionale, entrano nuovi, ma meno decifrabili, organismi di mediazione subdola: senza regole deontologiche, senza un giudice che possa fermarli, un direttore responsabile che risponda di calunniose notizie, di diffamazioni, di falsificazioni. Siamo in pericolo: la nostra convivenza è messa a repentaglio da questi meccanismi e nuove forme di violenze emergono. Ecco perché è bene che del web si impari a usare il meglio. Le possibilità che offre sono straordinarie, in effetti.
Noi del Cantiere, nel nostro piccolo, stiamo cercando dal gennaio 2020 di tessere una rete di tipo sociale senza le perniciose caratteristiche che si trovano sul web: per mettere in connessione persone che hanno a cuore il destino della città e della regione e contribuire al loro sviluppo. Ci siamo dati limiti chiari: chi scrive deve usare un linguaggio rispettoso e deve tenere a mente i dettami della Costituzione.
Sul Cantiere hanno scritto, o sono state intervistate, persone di ogni estrazione sociale e ideale. Siamo dichiaratamente di centrosinistra ma facciamo scrivere anche persone dell’altra parte del cielo politico cittadino. Chi ha parlato con noi non si è sentito maltrattato, anche quando abbiamo fatto domande scomode. Perché chiedere è lecito ma lo è anche di più se si è disposti a far rispondere come gli intervistati vogliono, senza forzare il loro pensiero. Chi vuole commentare i nostri articoli può farlo: ma, a differenza di quello che accade sui network, quei commenti non vanno direttamente in rete. Chi insulta (sui social ci sguazzano) non ha spazio nelle nostre pagine.
Cantiere Bologna vuole essere un luogo sicuro e protetto per la circolazione delle idee che servono alla città, in cui nessuno è escluso a priori o per partito preso, e tutti hanno pari dignità, se hanno qualcosa da dire. Ecco perché esistiamo. Ecco perché chiediamo a tutti di associarsi, di sostenerci, di contribuire ai nostri sforzi non solo con la quota associativa ma con scritti e idee. Perché è così che il dibattito può decollare, senza l’inquinamento delle bufale, senza troll malefici, senza il pericolo di qualcuno che voglia confondere le acque.
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Photo credits: CJ Dayrit
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