La città più ottimista d’Italia

Una persona amica scrive sotto pseudonimo per calare su Bologna il racconto Candide, ou l’Optimisme di Voltaire. Non basta dire che va tutto bene perché ciò si avveri: «Un canuto professore di metafisico-teologo-cosmologo-nigologia invita tutti ad alzare il capo verso il cielo esortando i presenti a soffiare verso l’alto, come un sol polmone» per impedire che la nuvoletta che avanza intercetti anche un solo raggio del sole che ci illumina. E, nel frattempo, si prova a prenderla con filosofia

di Maria Camilla Mellustri, ausiliaria


Mentre la gente attende di essere mossa da un muovitore, mentre si danno gli ultimi ritocchi al piano per far passare il passabile e ci si prepara a dare le prime mani di Pantone 15-0513 TPX (al secolo, verde eucalipto) su superfici di Ferrocemento e altri materiali grigi e inerti (ma facilmente pittabili e biologizzabili). Mentre gli adolescenti, tirandosi sediate sulla schiena, si sgravano dei loro dolori di giovani rimossi dai piani di investimento a breve, medio e lungo termine, mentre nel sottosuolo della metropoli i tubi si crepano e si aprono, rigurgitando acqua e fango in superficie e mentre infine, lo voglia il cielo, la città più ottimista tra tutte le città di ieri, oggi e domani si congratula con se stessa, ecco che improvvida e improvvisa, in fondo all’orizzonte, una nuvoletta sembra sopravanzare, guadagnando metro dopo metro.

Un canuto professore di metafisico-teologo-cosmologo-nigologia invita tutti ad alzare il capo verso il cielo esortando i presenti a soffiare verso l’alto, come un sol polmone. Si potrà, in codesto modo, deviare la traiettoria di quel piccolo ammasso di gocce e cristalli, affinché nemmeno un raggio di sole possa essere da questi intercettato, privando i futuri pannelli fototrofi della pur piccola porzione del proprio legittimo e necessario nutrimento. E nel frattempo, come si dice, la si prova a prendere in filosofia.

Quando Pangloss rassicurava il giovane Candide che quello in cui vivevano fosse il migliore dei mondi possibili, va a sapere se il vecchio precettore ci credesse veramente. O se invece fosse cosciente che, sotto la biacca del suo ottimismo, la sostanza del mondo fosse una somma di strati di purulenti orrori e malattie, sui quali il suo sventurato pupillo avrebbe prima o poi dovuto aprire gli occhi. «Meglio tardi, che prima», potrebbe aver ritenuto il filosofo tedesco, che fino all’ultimo si convinceva che la navigazione stava procedendo a gonfie vele, nonostante l’imbarcazione fosse sul punto di naufragare, inghiottita dalle acque. 

Sarà. «L’ottimismo è il sale della vita», declamava Tonino Guerra in un indimenticato spot di una grande azienda specializzata in vendita di elettronica di consumo ed elettrodomestici. L’ottimismo non costa nulla, se non il dubbio capace di eroderne le certezze e insinuare il sospetto che il migliore dei mondi possibili forse non lo sia, il migliore dei mondi, ma pieno di falle e imperfezioni, così che anche il più inguaribile e tetragono degli ottimisti, dentro di sé, comincia a sentire che la sua certezza vacilla.

Ma qui siamo alle prime pagine del romanzo. Lo smalto dell’ottimismo è ancora brillante, tutto luccica e sbrilluccica e il mondo appare liscio e serico, privo anche della più impercettibile ruga. È quel mondo dove c’è un rimedio a ogni ingiustizia, una soluzione a ogni problema, una cura per ogni male che lo affligge. Non serve che accada qualcosa, basta annunciare che lo farà. Non serve che l’ingiustizia venga emendata, che il problema sia risolto e che il male, finalmente, possa essere finalmente curato.

Basta dire che accadrà, che potrà accadere. Basta dirlo in favore di telecamera, ripeterlo sui social, annunciarlo con parole forgiate in una lega di pathos e fermezza. Basta che tutti siano concordi nel condividerle e ripeterle come una preghiera buddista.

Occhio agli accenti; credére è potere. Se ci credo io, perché non dovrebbero farlo anche gli altri, gli amici vicini e lontani? E dunque crediamoci, credeteci, anche a costo di qualunque costo. Perché non c’è altro in cui ha senso credere se non in ciò in cui si crede o si è cominciato improvvisamente a credere, perché forse, in quello in cui si credeva prima, non ci si crede ormai più tanto. O per niente.

Le lenticchie sono un simbolo di buona fortuna, ma sono anche i legumi per i quali Esaù cedette la primogenitura e rinunziò alla benedizione paterna.

A ognuno la sua esegesi. Io mi tengo la mia e ben mi sta.


Rispondi