“Workers buy out”: uno strumento cooperativo contro le crisi aziendali

In pratica è un’azione di salvataggio di un’azienda, o di una sua parte, realizzata dai dipendenti che subentrano nella proprietà. Un ottimo modo per trasformare il sussidio di disoccupazione in incentivo allo sviluppo, creando nuova occupazione e coniugando idee e lavoro con etica e solidarietà

di Lorenzo Berselli, consulente del lavoro


Il workers buy out o Wbo, che tradotto letteralmente vuol dire “lavoratori che comprano”, è un meccanismo d’impresa che si sta diffondendo sempre di più, in particolare nella regione Emilia-Romagna. 

In pratica è un’azione di salvataggio dell’azienda, o di una sua parte, realizzata dai dipendenti che subentrano nella proprietà. In Italia la prima esperienza di impresa rigenerata sembra risalire al 1978, quando le lavoratrici e i lavoratori afferenti alle categorie di giornalisti e tipografi dello storico quotidiano di Livorno “Il Telegrafo” (oggi “Il Tirreno”), ne acquistarono le quote per evitarne la chiusura.

Il sistema ha ripreso piede nel 2009, a seguito della crisi economica congiunturale, ma ha radici più lontane. Di fatto dal 1985 ad oggi lo strumento in forma cooperativa ha permesso il salvataggio di numerose aziende e posti di lavoro. Nel concreto si è rivelato non solo una possibile risposta alle situazioni di crisi ma anche una soluzione vincente nei casi in cui il passaggio generazionale d’impresa risulta difficile. In Emilia-Romagna, i dati pubblicati da Legacoop riferiscono la nascita di oltre 10 nuove cooperative collegate al fenomeno ogni anno, dal 2012. 

Il workers buy out è dunque un modo di fare impresa che consente di coniugare idee e lavoro con etica e solidarietà, generando numerose nuove realtà economiche e mettendo in sicurezza il lavoro già esistente. La commistione di lavoratori con esperienze diverse ha spianato la strada alla creazione di nuovi mercati, dando vita a bellissime storie imprenditoriali e di intraprendenza, di lavoratrici e lavoratori che altrimenti avrebbero perso il posto di lavoro. In molti casi riuscendo a farsi strada sul mercato originale dell’impresa e in altri settori produttivi. 

Lo strumento giuridico associativo principe, in questo caso, è la cooperativa di produzione lavoro o sociale. Si tratta di un modo diverso di fare impresa, che consente di coniugare idee e lavoro con etica e solidarietà tra lavoratori, che si fanno al contempo imprenditori e collaboratori.

Il primo sistema normativo per i quali questi interventi si sono resi possibili e sostenibili è rappresentato Legge Marcora (L. 49/1985, riformata nel 2001), uno strumento di politica attiva del lavoro utilizzato per rigenerare un’impresa in crisi economica, oppure nei casi in cui bisogna favorire appunto un ricambio generazionale dell’azienda senza eredi interessati a dare continuità all’attività imprenditoriale.

La Legge di cui sopra ha istituito un Fondo nato nel 1986 e destinato alla salvaguardia dell’occupazione attraverso la formazione di imprese cooperative tra dipendenti di aziende in crisi. Il Fondo è attualmente gestito da Cfi (Cooperazione Finanza Impresa) che, in qualità di investitore istituzionale, utilizza le risorse conferite dal Ministero dello Sviluppo Economico per finanziarie la crescita di imprese cooperative, attraverso una combinazione di linee di intervento in capitale sociale e in capitale di debito. Dalla sua nascita al 2020, ha sostenuto 520 cooperative, permettendo di salvare e creare oltre 22mila posti di lavoro.  

Destinatari dell’intervento sono piccole e medie imprese, costituite nella forma di cooperativa di produzione e lavoro e cooperativa sociale. Il meccanismo è il seguente: Cfi, nella forma di socio finanziatore, interviene con una partecipazione di minoranza non superiore al valore del capitale sociale, delle riserve patrimoniali e del prestito sociale della cooperativa, nel limite massimo pari al doppio del capitale sociale versato dai soci dell’impresa. Questa partecipazione è temporanea e va dismessa entro le tempistiche individuate dalla normativa di riferimento.

Oltre al capitale sociale, Cfi finanzia le cooperative attraverso linee di intervento in capitale di debito per sostenere piani di investimento, prestiti subordinati e prestiti partecipativi per migliorare la capitalizzazione delle imprese. Le lavoratrici e i lavoratori, inoltre, possono investire le loro risorse grazie ad interventi normativi più recenti, dall’anticipo della Naspi al conferimento del Tfr.

Interessante infine è il dato relativo al tasso di sopravvivenza di queste imprese, che si attesta superiore a quello delle aziende tradizionali. A ulteriore riprova che le imprese rigenerate con il Wbo rappresentano un valido strumento per trasformare il sussidio di disoccupazione in incentivo allo sviluppo, creando nuova occupazione.


Un pensiero riguardo ““Workers buy out”: uno strumento cooperativo contro le crisi aziendali

  1. Molto bene. Ottimo. Vorrei prendere la palla al balzo per fare un invito al Cantiere e al nostro Comune: perché non fare uno sforzo per limitare al minimo il provincialissimo e ormai (almeno per me) insopportabile e pigro abuso di vocaboli e locuzioni anglosassoni, in questo caso workers buy out…
    Potrebbe essere interessante coinvolgere qualche linguista, qualche letterato e personaggi come Alessandro Bergonzoni ad esempio, nella creazione di brillanti equivalenti dei vari bike sharing, stakeholder, sale, payback, frontperson, e chi più ne ha più ne metta, per introdurli almeno nel linguaggio dei nostri enti pubblici.
    Potrebbe essere stimolante, che ne dite?

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