Il sorriso di Stefano

A un mese dalla morte di Biondi, storica firma del Carlino per cui scriveva soprattutto del Bologna Fc, un editore che con lui aveva inventato un gioco bellissimo (l’invio su Whatsapp di scatti storici del fotoreporter Walter Breveglieri) rivive, insieme al dolore della notizia che lo raggiunse l’11 maggio, la gioia di quei momenti di amicizia. E ci regala un racconto che il giornalista gli donò quando Roberto Mugavero compì 50 anni. Il Cantiere ringrazia e si unisce con commozione al cordoglio

di Roberto Mugavero, “Edizioni Minerva”


Fra le cose che amavo fare con Stefano Biondi, in quella sorta di “gioco infinito” tra noi, c’era il periodico invio a lui tramite WhatsApp di immagini storiche del nostro amatissimo Bologna Fc, tratte dall’immenso archivio del grande fotoreporter bolognese Walter Breveglieri. Scatti e attimi di calcio straordinari e in gran parte inediti, pieni non solo di azioni e gol, ma anche di ambiente, personaggi e carichi di una umanità che oggi fatichi a ritrovare nei calciatori, non per loro volontà, ma per un sistema calcio che li blinda decisamente troppo dalla loro stessa vita.

Riflessioni amicali che con Stefano ci facevamo commentando a volte una singola fotografia e le sue risposte a quei particolari scatti sarebbero da sole il degno commento a un bel libretto a tinte rossoblù per quanto erano: eleganti, incisive e divertenti, come lo era del resto Stefano.

E così, fra i tantissimi ricordi che da giorni affollano la mia mente a un mese dalla sua scomparsa e che rendono inevitabilmente il mio cuore dolente, mi torna in mente quando gli comunicai che avevo trovato nella soffitta di casa Breveglieri ben 21 scatole da scarpe zeppe di negativi tutti dedicati al calcio dal 1945 alla fine degli anni ’60. E naturalmente in quell’universo “mare di lastre e pellicole tutto in negativo” trovavano posto praticamente tutte le partite del nostro amato Bologna. Giacevano lì dentro da decenni, ben custodite e ben chiuse in buste oleate o rullini metallici intonsi. Migliaia di scatti che attendevano solo di tornare a rivivere.

Scrissi a Stefano di quella mia felicità e lui mi rispose: «Roberto, sei in una delle facoltà di archeologia moderna. È una scoperta bellissima. Devi renderla pubblica, è patrimonio della nostra comunità!! Sono una delle sette meraviglie calcistiche del mondo!».

Era il 22 ottobre dello scorso anno e quella sera eravamo entrambi felici. E anche oggi che continuo (è diventato uno dei miei hobby!) a esplorare quelle decine di migliaia di negativi, appena trovo qualche scatto particolare ho l’istinto di mandarglielo, ma poi mi blocco, ritraggo la mano dal computer, deglutisco il sapore amaro della malinconia e giro il mio sguardo dolente verso la finestra a osservare il cielo, certo che Stefano e gli altri miei cari – senza farsi vedere – sono lì da qualche parte a sorriderci e a proteggerci.

È passato un mese da quell’11 maggio, quando in una caldissima mattina mi raggiunse a Roma – dove mi trovavo per presentare un nostro libro – la telefonata con la notizia della sua scomparsa che temevo sarebbe giunta, ma che non avrei voluto sentire e neppure lontanamente pensare. E quella sera ritornando a casa mi sono ricordato di un racconto che Stefano aveva voluto scrivere 10 anni fa come omaggio alle mie 50 candeline. Sì, una sua bellissima storia che andò ad arricchire un libro che la mia famiglia compose amorevolmente a mia insaputa, con tanti contributi e pensieri per quel mio compleanno così “tondo e speciale”.

L’ho riletto e mi sono commosso come feci allora, perché da quel breve racconto emerge di Stefano Biondi quel profondo amore per la sua famiglia, il senso e rispetto dell’amicizia e naturalmente quella sua passione per la sceneggiatura e la scrittura, da quel grande giornalista che era. Così, oggi, ritengo giusto che quel racconto viva e sia come mi chiese lui per le foto di Breveglieri “Patrimonio della nostra comunità!!”.

Non è più solo mio, ma di chi vorrà leggerlo e grazie alla gentile ospitalità di Cantiere Bologna lo trovate qui di seguito. È una storia delicatissima, ambientata nel futuro, dedicata a chi qui vi scrive e al mio nobile mestiere di editore.

Un racconto scritto – appunto – 10 anni orsono, ma che riletto oggi ha spunti sulla realtà che viviamo e che vivo davvero incredibili, come struggente e profetica è quella sua frase nel testo che dice: “E fu lui a salvare i miei libri e con quelli, io penso, la mia anima”.

Il mio mestiere di editore, come ho avuto già modo di dire, mi consente il privilegio di conoscere e condividere le vite di molti e di pubblicare sovente dei loro libri che, dal giorno in cui quel singolo autore ci lascia per sempre, restano lì apparentemente solitari e inermi, ma sono invece così pieni di vita – con le loro profumate pagine di carta e le nere righe del testo impresse con l’inchiostro tipografico – che mi fanno ricordare come sono nati, le chiacchierate spese attorno alla loro creazione e i sorrisi che solo io posso rivedere, con gli occhi pieni di quella felice commozione che non si può trattenere.

Ho conosciuto come tutti tantissime persone e diverse anch’io le ho purtroppo perdute in questa vita, facendomi sentire più solo e oggi – alla soglia dei miei 60 anni – un editore pieno di bellissimi ricordi e di libri che mi parlano di loro, che mi parlano anche di Stefano Biondi.

Ma, come scrisse il grande scrittore e poeta svedese Johan August Strindberg in merito alla solitudine, «quello di cui ho paura non è la morte, ma la solitudine».

Ciao caro Stefano e ricordati, ho ancora tante fotografie del Bologna da mostrarti e da farci sospirare, esattamente come questa che vedi qui del 1968 dove: Cresci, Haller, Bulgarelli, Pascutti, Fogli e altri giocatori rossoblù si abbracciano dopo un gol e sono tutti felici. Già, esattamente sorridenti e felici come lo siamo stati per tanti anni anche noi.

Per sempre, Roberto

L’ultimo editore

di Stefano Biondi

“Vedi Pietro, qui una volta c’era una grande libreria», disse nonno Stefano. «Nonno, che cos’è una libreria?», chiese Pietro che incuriosito dalla novità spense subito il suo Iphone Eyes, l’ultimo modello dei telefoni, quello che allarghi o restringi le immagini aprendo o chiudendo le palpebre. Pietro lo aveva ricevuto per Natale e non se ne separava mai.

«Vai sul sito “Vecchio come mio nonno”, clicca sulla lettera “elle” e di sicuro ti uscirà libreria».

«No, nonno, mi piace di più se me lo racconti tu che cos’era una libreria».

«Va bene Pietro, ma è una storia lunga e dovrai avere un po’ di pazienza».

Mentre parlava, il viso di nonno Stefano si contraeva, tentava di respingere la commozione che lo assaliva. Gli era già successo di piangere pensando al passato e ai libri. Non voleva che Pietro pensasse di vivere in un’era peggiore di quella toccata a suo nonno. 

Casa sua fino a quarant’anni prima era stata invasa dai libri, così come prima della sua quella di suo padre, il bisnonno Dino. Tutti e due, padre e figlio, avevano scritto e avevano avuto la fortuna di essere pubblicati.

Ma questo era successo prima di quel famoso e tristemente indimenticabile 14 novembre del 2173, quando il ministero delle nuove comunicazioni di Pechino mise i libri fuorilegge. Per nonno Stefano fu una botta tremenda. Non si era ancora ripreso da quella legge emanata con la scusa di salvaguardare il verde e che in realtà strizzava l’occhio alle lobby della tecnologia.

Computer sempre più sofisticati avevano preso il posto dei libri e gli editori si erano adattati. Niente carta, soltanto schermi, il trionfo della cultura digitale. Gli studenti scaricavano i loro testi dagli archivi elettronici delle università e i genitori provvedevano pagando con la carta di credito. Succedeva spesso che gli schermi negassero l’accesso agli studenti appena seduti davanti alla commissione d’esame, quando i genitori si facevano trovare con il credito insufficiente nel loro conto della Banca Globale, che era nata dalla fusione degli ultimi colossi del credito sopravvissuti alla grande crisi del 2012.

Quello di Pietro era un mondo senza il fruscio della carta, senza librerie, senza taccuini, senza edicole, senza quaderni. E senza giornali. Era un mondo di cultura online. E non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che nonno Stefano era stato contagiato dalla febbre dei libri da ragazzino, quando capì che l’unico sistema per evadere, per scappare, per essere soli e per essere un altro o mille altre persone è leggere, tuffarsi in un libro e diventare chissà chi, in partenza per chissà dove. E se non fosse che milioni di persone la pensavano come lui.

O, almeno, che l’avevano pensata come lui. 

Era questo a farlo piangere: diventava vecchio e l’idea di non poter lasciare a Pietro i suoi vecchi libri era una ferita che non si sarebbe mai chiusa. «Come i nazisti, pensava fra sé e sé, questi sono come i nazisti che bruciavano i libri». 

Erano passati trent’anni da quando il funzionari del ministero delle comunicazioni sociali entrarono senza preavviso in casa sua per fare l’inventario dei libri e intimargli di portarli al bruciatore di Stato. Lui non lo aveva fatto. E ancora oggi ne andava fiero. I suoi libri erano ancora là, al sicuro, dove li aveva messi e dove sperava un giorno di poter tornare. Era quello il suo sogno di uomo che vedeva avvicinarsi la fine. Aveva salvato i suoi libri, ma non si sentiva un eroe. Anche se in questa storia un eroe vero c’era. Solo che nessuno sapeva dove si nascondesse. Era il ricercato numero uno del pianeta Terra, era segnalato da tutti i Dipartimenti dell’Ordine Precostituito e la taglia sulla sua testa era cresciuta a dismisura. Oggi, chiunque avesse consegnato Roberto Mugavero al Dipartimento, avrebbe incassato quattro milioni di Jiang. Molti anni fa sarebbero stati otto milioni di euro.

«Allora nonno, mi racconti questa storia delle librerie?».

Era indeciso nonno Stefano. E prendeva tempo: «Cerchiamo un Centro di ricreazione commerciale, ci prendiamo qualcosa da bere, ci mettiamo comodi e ti racconto tutto». 

Non era sicuro che Pietro avesse l’età per custodire un segreto, l’unico vero, grande segreto della sua vita. Ma sapeva anche di non poter attendere più tanto. Pietro sarebbe certamente cresciuto, mentre lui quanto avrebbe potuto ancora invecchiare?

Decise, infine, di compiere il grande passo. Non cercò il Centro di ricreazione commerciale, prese la mano di Pietro e iniziò il suo racconto: «I libri erano la linfa vitale della nostra famiglia, bambino mio. E quando mi dissero che avrei dovuto bruciare i miei e tutti quelli che mi aveva lasciato il bisnonno Dino, iniziai a cercare il modo per salvarli. Perché erano preziosi come i quadri, come i grandi monumenti, come le opere d’arte, come tutto ciò che custodisce la storia, il passato, la verità. Sai Pietro, c’erano dei giorni in cui di leggere non avevo tanta voglia. Mi facevano male gli occhi, dopo le ore passate davanti al computer, ma mi bastava guardare le mie librerie per provare un po’ di serenità. Era come avere tanti amici sempre pronti a farti compagnia, a raccontarti cose che tu non hai vissuto, che non sapevi e che neppure immaginavi.

Era la vita parallela a quella di ogni giorno. Non c’è miglior vita, Pietro, di quella che ti possono offrire i libri. Sono fedeli, discreti, pieni di sorprese. Il contrario di un capo ufficio, di un direttore del settore Ottimizzazione delle risorse umane, di un manager, gente sempre uguale, gente con poca fantasia, gente che guardava un libro pensando che il tempo è denaro e che fermarsi a leggere in qualche modo li avrebbe impoveriti. Era vero il contrario, ma loro non lo sapevano, non lo potevano sapere. Allora Pietro, in quei giorni il tuo nonno era amico di un signore che si chiama Roberto Mugavero. E fu lui a salvare i miei libri e con quelli, io penso, la mia anima. 

Andai da lui, che si era già dato alla clandestinità dopo che il movimento Resistenza Letteraria era stato sgominato e i suoi migliori amici erano stati imprigionati e costretti giorno dopo giorno ad alimentare il fuoco che avevano acceso per bruciare i libri. Li bruciavano per impedire a voi, che sareste nati dopo, di sapere che cos’è un libro. E una libreria, il negozio dove i libri venivano venduti.

Mugavero era sfuggito a questa tortura. Si era ribellato, aveva continuato a coltivare il suo sogno. Aveva vinto la sua battaglia. Ma prima che la situazione si facesse drammatica, mi ha fatto il più bel regalo che abbia mai ricevuto in vita mia.

Mugavero si era nascosto a Malacappa, vicino a casa sua: dalle cantine di una trattoria, aveva iniziato i lavori di scavo, ricavando una sconfinata galleria sotterranea. Lì continuava la sua opera di editore: era un nascondiglio sicuro, ma correva rischi enormi. Se lo avessero scoperto, lo avrebbero deportato a Digital Town, una città fantasma, di soli prigionieri, costretti a vivere agli ordini di un grande Ced, un Centro elaborazione dati che scandiva le ore dei prigionieri, impegnandoli in attività che non occupano la mente e che, a lungo andare, mandano il cervello in pappa».

«Nonno», chiese Pietro che stava ascoltando a bocca aperta il racconto del nonno, «che cos’è un editore?».

«L’editore, Pietro, è colui che stampava i libri e che con quelli riempiva le librerie, i negozi che vendono i libri per chi ha un anno, per chi ne ha dieci, cinquanta o cento. Una specie di luna park da vivere seduti su una seggiola o su una poltrona».

«Ho capito nonno, vai avanti».

«Dissi a Mugavero che mi avevano scovato e che avrei dovuto portare tutti i miei libri al bruciatore. Io li salverò, disse Mugavero. Portameli qui più in fretta che puoi. Il giorno dopo caricai un grande furgone con tutti i miei libri e andai da lui.

«Che ci fai adesso con questi, Roberto?».

«Aspetta qui un paio d’ore e vedrai». 

Caricò tutti i miei libri su carrelli che correvano lungo rotaie, come quelle delle miniere. E due ore dopo era di nuovo lì, con gli stessi carrelli e tutti i miei libri sopra. «Allora – gli dissi – perché tanto mistero?». «Apri uno dei tuoi libri», mi intimò Mugavero. 

Lo feci: la copertina avvolgeva soltanto fogli bianchi, completamenti bianchi. «Visto?», mi disse Roberto con aria compiaciuta. «Visto cosa?», feci io. 

E lui: «Ho lasciato le copertine al loro posto, dopo averle fotografate. Con calma le ristamperò. Mi sono tenuto i testi e li ho sostituiti con fogli bianchi. In questo modo, caro Stefano, sto salvando i libri di migliaia di persone, di facoltà universitarie, di biblioteche pubbliche e private. Vieni con me». 

Lo seguii e a bordo dei carrelli entrammo in uno sconfinato dedalo di corridoi. Lui batté le mani, fece accendere le luci e mi apparve il più grande spettacolo che un uomo possa vedere. Centinaia di gallerie alle cui pareti erano incastonate librerie. Milioni di libri sono custoditi lì, nel ventre della terra, il più bel monumento che l’uomo abbia mai dedicato a sé stesso.

«Adesso tu, disse Roberto, vai al bruciatore di Stato con tutti i libri bianchi e le copertine originali. Uno alla volta li consegni alle guardie che hanno l’elenco dei tuoi veri libri da bruciare e che man mano li spulciano. Quella è gente che non ha mai aperto un libro in vita sua e che non lo farà questa volta, così come non lo ha mai fatto prima. Non si accorgerà nessuno di aver bruciato solo fogli bianchi. Ci cascano sempre, quei poveretti. È in questo modo che ho conservato tutti i libri di chi non se ne voleva separare. È un po’ rischioso, certo, ma fino a ora ha sempre funzionato. Lo faccio perché so, in cuor mio, che verrà il giorno in cui le librerie torneranno ad arricchire le nostre città. E per quel giorno voglio essere pronto a riempirle tutte».

«Ecco Pietro, questa è la vera storia dei miei libri e di quelli del tuo bisnonno. Io spero di vivere abbastanza per poterli rivedere tutti esposti in una qualche libreria».

Pietro piangeva. Cercava di non farlo, voleva essere più grande della sua età. Si fermò di scatto, si irrigidì, smise di piangere e, con l’aria di chi non ammette discussioni, disse: «Bene nonno, adesso portami da Mugavero».

«Pietro, perché ci vuoi andare?».

«Ho capito una cosa, nonno: questa dei libri mi pare l’avventura più fantastica che a un bambino possa capitare».

Photo credits: Walter Breveglieri


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