Se si pensa di proporre semplicemente l’applicazione dello schema di alleanza politica di casa nostra a livello nazionale, questo significa avere il paraocchi. Il contesto è mutato e l’esperienza bolognese reggerà se, invece di seguire la tendenza di personificazione assoluta della politica, riuscirà a far vivere nella pratica amministrativa il desiderio di cambiamento emerso dalle elezioni comunali
di Detjon Begaj, consigliere comunale
Entro in punta di piedi nel dibattito agostano sul presunto “modello Bologna”. Una definizione che comprendo, al di là della provocazione che faccio nel titolo, ma che non mi appartiene.
Come dissi già in un’intervista del 24 aprile al Carlino, preferisco il concetto di anomalia, non sussumibile, imprevedibile, che non rappresenta il “già visto”.
I modelli quando vengono definiti tali puzzano già di conservazione. Il modello Bologna e il modello Emilia come noto si basavano sull’alleanza tra Pci, Cooperative, sindacati, corpi intermedi che remavano verso il sol dell’avvenire, ma in realtà non era affatto pacificato (come dimostrano i movimenti degli anni ‘60 e ‘70). Non è un mistero che oggi ci sono cooperative che propongono salari da fame, sfruttamento, catene di subappalti. Qualcosa del “vecchio mondo” esiste ancora, ma negli schemi del nuovo capitalismo finanziario globale, della crisi climatica quasi irreversibile e della “guerra guerreggiata” quasi permanente, tutto è diverso.
Lo smottamento del quadro politico nazionale rafforza la mia convinzione: se per esportare il modello bolognese si pensa di proporre semplicemente l’applicazione dello schema di alleanza politica di casa nostra, questo significa avere il paraocchi. Il contesto è mutato, l’asse con i 5 Stelle è andato a farsi benedire e se si riaprirà un’interlocuzione sarà su metodi e parole d’ordine diverse rispetto al passato, anche perché banalmente forse si tratterà di fare opposizione alle destre.
Voler fare quindi di Bologna la “città più progressista d’Italia” nel contesto delle larghe intese del governo Draghi (di cui abbiamo già detto di non essere orfani) o con al governo una destra (anche) postfascista sarebbe la stessa cosa? Lo scopriremo dopo le elezioni.
Tornando ai legami tra il contesto locale e nazionale, ci sono ex 5 Stelle che ora rappresentano gruppi o partiti di sinistra che a loro volta sostenevano forze civiche alle ultime amministrative, c’è chi ha creato contenitori civici fuori dal perimetro del Pd e ha deciso di candidarsi nelle liste del Pd, senza finire il mandato nell’istituzione per la quale ha creato quegli stessi contenitori. Insomma non credo che Bologna sia una bolla né una fortezza che dobbiamo difendere dai barbari. “Semplicemente”, si tratta di adattare la scommessa di un governo cittadino progressista e su alcuni temi in discontinuità con il passato (dove Coalizione Civica è chiamata a rappresentare questa vocazione) allo scenario nel quale ci risveglieremo il 26 settembre.
L’anomalia bolognese reggerà se invece di seguire la tendenza di personificazione assoluta della politica riuscirà a far vivere nella pratica amministrativa ciò che è emerso dalle elezioni comunali: la volontà di un pezzo di città di cercare un cambiamento, di dare una chance di governo a coloro che vengono da percorsi sociali, più o meno radicali, ma tutti fortemente radicati nel territorio, che hanno prodotto avanzamenti nell’ambientalismo, nella tutela dei diritti sociali e civili.
Mi chiedo: quali dei candidati in Parlamento rappresentano pezzi di società organizzati, aggregazioni radicate e che funzionano, interessi di parte (che sono diversi dagli interessi personali) da contrapporre a quelli di altre parti? Quali invece rappresentano solo se stessi, like sui social, entità astratte utili a coprire alcuni temi più sul piano mediatico e simbolico, invece che stare nei gangli delle strade, dei conflitti, delle lotte delle nostre città?
Ci sono sigle vuote utili solo al collocamento del capo o della capa, mostrando l’assenza di “cultura dell’organizzazione” delle istanze reali, limite che affligge nei nostri tempi anche i corpi intermedi. Oggi sembra che basti aprire una pagina Facebook che si colloca nel claim dell’attivismo su qualche tema e, se si è bravi, si raggiunge visibilità mediatica, si ottengono spazio per interviste sui giornali. Poco importa se davvero ci sia una moltitudine dietro, se si è capaci di mobilitare le persone.
Ho sempre inteso la politica come esercizio dei rapporti di forza (all’interno dei quali costruire alleanze e fare scelte di campo) e pertanto vorrei ribaltare un’affermazione che spesso leggo quando ci sono beghe di partito, litigi tra maggioranze e minoranze interne. Si dice spesso «manca uno spazio di confronto». Ecco, a me manca invece lo spazio dello scontro. Uno scontro politico tra visioni di mondo, della dialettica come motore della storia che muove migliaia di persone dietro idee diverse che vengono perseguite con tenacia e convinzione, non del posizionamento e autocompiacimento personale.
Saremo in grado di fare la nostra parte per sostenere politiche re-distributive della ricchezza (tassando gli extra-profitti ad esempio) quando più della metà del paese non arriverà a fine mese a causa del costo dell’energia e dell’inflazione? Il modo in cui affronteremo la crisi energetica sarà uno dei terreni di scontro politico e sociale.
La decisione di rompere il salvadanaio della Città Metropolitana di Bologna (il fondo perequativo) per usarlo contro il caro bollette è già una scelta importante e unica in Italia. Nello scontro troveremo la sintesi, il compromesso, l’azione politica e amministrativa, il senso di stare nella maggioranza o all’opposizione all’interno di un’istituzione locale o nazionale. Se le elezioni nazionali aiuteranno a far chiarezza sul ruolo di Bologna ben venga, favorendo magari un risultato che consenta la creazione di una coalizione progressista per non consegnare il Paese a chi ha nel programma la guerra ai poveri e ai “sussidi”, i favori fiscali ai ricchi, il razzismo, l’omolesbotransfobia.
Photo credits: Comune di Bologna
La Coalizione Civica, la formazione politica che l’ha portata in Consiglio Comunale, pensata da Mauro Zani e costruita in un anno di duro lavoro da lui, da me e da pochi altri, nacque per fare opposizione al Partito Democratico in una città che -e questo è l’unico punto su cui siamo d’accordo- avrebbe molto bisogno di un po’ di sana e costruttiva opposizione (“scontro” lo chiama Lei). Di un’opposizione che pungoli la maggioranza e le impedisca di star seduta sugli allori, postura foriera di decadimenti certi di qualsiasi buona pratica amministrativa del passato. Quella Coalizione Civica destò un certo interesse nella cittadinanza, ma fu prima infiltrata e poi fagocitata da un gruppo composto da Centri Sociali (tra cui il Labas, di cui Lei era attivista), Possibile (di quella Elly Schlein ex sedicente coraggiosa e oggi di fatto rientrata mansueta nelle file del partitone, Sinistra Italiana che, nei fatti, al dunque, è sempre la stampella prediletta del Partito Democratico e da altri. Al lato pratico quella Coalizione Civica trasfigurata in altro da se stessa, sostenne informalmente Merola al ballottaggio e si produsse in un quinquennio di ovviamente blandissima opposizione; oggi, esprime addirittura il vice-sindaco. Dunque non ha molto da lagnarsi della mancanza di uno spazio di scontro e non le resta che un sereno pedalare silenzioso sulla bicicletta che ha contribuito a realizzare e sulla cui sella sta seduto. Oggi tra una ex finta opposizione cooptata e il malandatissimo, criticabilissimo, disorientatissimo partitone, sceglierei sempre quest’ultimo. Tanto vale.