«Bologna non andrebbe vista come un paradosso. Entrando dentro le specifiche norme urbanistiche regionali e comunali viene fuori il ritratto di una classe politica, che si autodefinisce di sinistra, che da decenni lavora per privatizzare il proprio territorio. La differenza è che qui si riesce a farlo con più efficienza e con maggiore convinzione rispetto ad altri comuni fuori dalla regione»
di Giuseppe Scandurra, antropologo e docente dell’Università di Ferrara
Nel dicembre del 2017 viene approvata la legge regionale che disciplina la tutela e l’uso del suolo. Nel settembre del 2021 il consiglio comunale di Bologna dà il via al nuovo Pug (Piano Urbanistico Generale) che rende vigente anche il regolamento edilizio e le nuove disposizioni organizzative urbanistiche.
Sono gli anni in cui il “modello” prende forma. Nonostante il richiamo a non consumare più suolo, la città si riempie di palazzi altissimi che non soddisfano in alcun modo il fabbisogno abitativo, visti i prezzi di affitto e di acquisto delle nuove abitazioni. Il turismo “mordi e fuggi”, agevolato dalla rete aeroportuale del Marconi, fa esplodere il mercato delle piattaforme, in primis Airbnb, che sempre più impediranno a migliaia di studenti bolognesi di trovare un letto.
Lo sviluppo verticale della città, inoltre, viene accompagnato dalla nascita di veri e propri “mostri urbani”, come denunciano tanti comitati di abitanti, ora consentiti dalle nuove norme edilizie (qui). L’urbanista Rocchi, vestito da flâneur, passeggiando per il territorio comunale censisce centinaia (più di 500, tra cui 200 pubblici) di luoghi rimasti sfitti, dei veri e propri “vuoti urbani” (qui).
Appare sempre più evidente come la questione “spazi” non riguardi solo pochi metri quadrati per cui tante associazioni e gruppi informali lottano gli uni contro gli altri per vincere un bando di assegnazione, ma piuttosto migliaia di metri cubi di proprietà pubblica come le ex caserme militari che rischiano tutti, ora, di essere privatizzati (eccolo il “modello” cui fa riferimento l’attuale sindaco di Napoli!). Tutto ciò spinge numerosi cittadini a ridiscutere, in assemblee che proliferano in città e che trovano come teatro sempre più luoghi all’aperto (vista l’assenza di spazi per fare politica), il concetto di “città pubblica”.
La rete “Diritti alla città”, portando sintesi a questo dibattito, scrive una delibera di iniziativa popolare che consegna agli uffici comunali. Il testo parla chiaro: «Le aree, gli edifici pubblici e il verde pubblico dovrebbero rimanere integralmente di proprietà pubblica ed essere messi a disposizione della collettività, per essere valorizzati fuori dalle logiche del mercato immobilitare e gestiti in maniera autonoma dai cittadini (riconoscendo quindi il valore dell’auto-organizzazione e autogestione)». La risposta degli uffici comunali arriva poco prima che la rete inizi a lavorare per raccogliere le 2000 firme che obbligherebbero il consiglio comunale a discutere circa i temi al centro della delibera: il testo viene rigettato perché non conforme e il dibattito viene chiuso (qui).
Bologna, forse, non andrebbe vista come un paradosso. Entrando dentro le specifiche norme urbanistiche regionali e comunali viene fuori il ritratto di una classe politica che da decenni lavora per privatizzare il proprio territorio. La differenza, ovvero “il modello”, è che qui si riesce a farlo con più efficienza e con maggiore convinzione rispetto ad altri comuni fuori dalla regione. A fronte, però, di una campagna di marketing senza fine promossa dalle ultime amministrazioni comunali, sempre più efficaci nel vendere fumo ideologico (Bologna “città della partecipazione”, dei “beni comuni”, della “Fondazione” e del “bilancio sempre in attivo”), il dato nuovo è quello di una resistenza inaspettata, variegata, mai ideologica e sempre sull’oggetto quando c’è da fare battaglia a specifiche politiche e norme approvate dal consiglio comunale. Quello che pare sempre più evidente, d’altronde, è la manifesta, e spesso anche esplicitata, impotenza degli amministratori a cambiare direzione in termini di politiche urbanistiche.
Oggi l’argomento retorico più diffuso dagli amministratori in carica è quello per cui tutti i “mostri urbani” che si vedono in città non dipendono in nessun modo dall’attuale governo locale, ma sono frutto di scelte fatte dai colleghi che li hanno preceduti, a dimostrazione dell’incapacità della classe politica di tracciare e attuare una visione di “città pubblica”. Anche a fronte di questa subdola retorica, però, oggi inaspettate e variegate forme di resistenza sembrano finalmente capaci di reagire citando leggi, decreti, portando numeri sempre più alti di persone che manifestano in piazza e che non hanno paura di fare nomi e cognomi dei “governanti” che avallano una continuità di politiche che rendono, per l’appunto, Bologna un “modello”.
“Convergere per insorgere” è un bello slogan. Per diventare, gaberianamente, un mela, qualcosa di tangibile e politicamente spendibile, dovrà imparare a definire al meglio i complementi oggetto di tanto evocata convergenza. Risulta chiaro ai più che la questione “spazi” non può essere isolata da altre lotte necessarie, quali quelle per i diritti sociali, per il lavoro, la casa e l’emergenza climatica.
Però qualcosa è cambiato, per l’appunto: le ultime manifestazioni, la proliferazione di reti composte da attivisti che provengono da esperienze diverse (oppure, che hanno proprio in queste lotte conosciuto la pratica politica), fotografano un’esigenza di conflitto sempre più evidente: la città, tutta, non potrà che essere più ricca se un sano dialogo “critico” (e, soprattutto, uno scontro maturo di punti di vista sempre più competenti) invece che represso verrà ascoltato e rispettato in quanto qualcosa che porta contenuti politici alla stessa Amministrazione.
Con il nuovo anno le occupazioni, gli studi, le ricerche, le raccolte firme, le delibere, le manifestazioni contro le vigenti politiche urbanistiche comunali e il governo nazionale non potranno che aumentare. Se i nuovi attivisti dovranno stare attenti a non competere tra loro, ma piuttosto a “convergere” realmente su alcuni punti programmatici, i consiglieri comunali ancora convinti che l’obiettivo sia quello di dare vita a una giunta di sinistra dovranno iniziare ad ascoltarli, nel fine comune di far prendere una direzione ostinata e contraria all’attuale “modello Bologna”.
Oggi sappiamo che, per cambiare questo “modello”, ovvero impedire l’apocalissi climatica legata a un sistema economico-politico sempre più miope, non abbiamo molto tempo; se Bologna vuole giocare un ruolo significativo, anche a livello nazionale, è tempo di agire, subito.
Photo credits: Corriere di Bologna
Bologna ha avuto la straordinaria fortuna di veder lavorare insieme politici lungimiranti e un urbanista di salda preparazione : per pochi anni Campos Venuti delineò le linee – e i limiti- di sviluppo ideali per la nostra città. Dagli anni ‘70 in poi si è proceduto allo smantellamento del suo piano urbanistico, costruendone tuttavia un mito per l’immagine di propaganda.
Ogni offesa ai suoi principi ha reso grandi profitti alla gestione degli interessi pubblici e privati. Vedo molte lacrime di coccodrillo.