Da tempo sono state messe in atto architetture organizzative unificate tra le aziende dell’area metropolitana che hanno mostrato tanti limiti giuridici e pratici nell’organizzazione. Non hanno fatto altro che portare a un peggioramento delle condizioni di lavoro dei medici su larga scala. Ci sono modalità lavorative e professionali, tipiche della professione medica, che in questa ottica unificata non vengono minimamente considerate
di Salvatore Lumia, presidente Cimo-Fesmed Emilia-Romagna e Commissione Albo Medici OMCeO di Bologna
Da quando il sindaco Lepore, per risolvere i problemi della Sanità bolognese, ha proposto la costituzione di una Azienda sanitaria unificata, si è acceso un dibattito sulla questione, tra chi plaude all’iniziativa e chi si dichiara contrario. Giuste le affermazioni di Angelo Rambaldi (qui) ma devo dire che dell’argomento ai medici ospedalieri non interessa molto; che ci sia una sola direzione aziendale piuttosto che due non cambierà la sostanza dei problemi.
Già da tempo sono state messe in atto azioni de facto, attraverso architetture organizzative unificate tra le aziende dell’area metropolitana, che hanno mostrato tanti limiti giuridici e pratici nell’organizzazione del lavoro. Purtroppo non hanno fatto altro che portare a un peggioramento delle condizioni di lavoro dei medici su larga scala.
Mi riferisco a quella sperimentazione, già da anni in atto, chiamata “interaziendalità”: l’unificazione di servizi tra i diversi ospedali cittadini, con la creazione di servizi unici come il Lum (Laboratorio Unico Metropolitano), la Radiologia unica per l’Ausl, reparti specialistici unificati (che oggi si chiamano Uoc, Unità Operative Complesse). Questi hanno permesso di utilizzare lo stesso personale medico su diversi stabilimenti ospedalieri con direttori di Uoc a scavalco su molti (troppi) presidi, costringendo i medici a continui spostamenti tra i diversi presidi ospedalieri, spostamenti che avvengono con i propri mezzi e senza nessuna copertura dei costi e dei rischi, completamente a carico del medico senza nessun riconoscimento economico e come ulteriore elemento di stress, come se ce ne fosse bisogno o fosse proficuo per la qualità del lavoro.
I nostri amministratori non riescono a comprendere che il lavoro di un medico all’interno di un reparto è fatto di azioni e soprattutto relazioni complesse che devono avere unitarietà e continuità, specie nel rapporto con i pazienti, che lo chiedono e ne hanno diritto. Non si può mandare un chirurgo a operare un giorno in un ospedale e un giorno in un altro; quando il chirurgo opera un paziente, nei giorni seguenti deve (e vuole) seguirlo nel decorso post-operatorio, per cogliere gli eventuali aspetti del trattamento, dell’insorgere di eventuali complicanze, della personalizzazione della cura in base alle diverse complessità e differenze tra un paziente e l’altro.
Deve esistere, all’interno di ogni Uoc, un apicale che sia, oltre che il responsabile, quello con la maggior competenza, capacità ed esperienza e a cui i medici (e i pazienti) possano rivolgersi nelle situazioni più complesse o critiche. Non può essere solo un manager vagante tra i diversi presidi territoriali, dedito a compiti organizzativi e di budget.
Non per niente la legge prevede che quando il direttore di Uoc (il primario) deve assentarsi, nomini un “facente funzioni temporaneo” (ovviamente tra i suoi collaboratori).
Argomentazioni simili riguardano anche i servizi di guardiania o di reperibilità nei reparti; se il medico che fa la guardia in un reparto fa parte dell’équipe di quel reparto conosce già le problematiche di tutti i pazienti ricoverati e può facilmente interpretare le situazioni e decidere in maniera corretta. Diversamente, un medico che fa parte di un altro reparto (o un c.d. gettonista) e non conosce i pazienti, ma li prende in carico al momento del cambio di turno, si basa su consegne spesso frettolose perché i pazienti da prendere in carico sono tanti, con guardie interdivisionali su posti letto che a volte superano il centinaio, e spesso sono collocati in padiglioni ospedalieri diversi.
Che nell’ambito del territorio metropolitano di Bologna la sanità pubblica converga in un’unica azienda oramai poco importa, ma per farla funzionare bisogna ripristinare le logiche della cura e ridurre quelle delle “prestazioni”. I presidi ospedalieri devono avere dei reparti (Uoc) con posti letto dedicati (e non l’obbrobrio dei c.d. reparti per intensità di cure, dove sono mescolati pazienti di più specialità con grandi problemi di gestione), dotazioni organiche adeguate, direttori esclusivi e dedicati a quei reparti, servizi diagnostici (radiologie e laboratori) presenti fisicamente in quei presidi.
Certamente sarebbe utile che alle decisioni organizzative importanti, prese nell’ambito della Conferenza territoriale sanitaria e sociale (Ctss), organo di governo della sanità territoriale presieduto dal sindaco, partecipassero anche i medici, attraverso le loro rappresentanze, ma di questo non c’è traccia.
In campagna elettorale il sindaco si era impegnato a chiedere la collaborazione dei medici, ma non se n’è più saputo niente; in un recente passato la mia organizzazione sindacale, per conto della confederazione a cui aderisce (Cida) aveva ripetutamente chiesto di partecipare alla Ctss, sentendosi rispondere che c’erano già i sindacati della triplice (in cui peraltro la componente medica iscritta è residuale). Similmente anche l’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri, che comprende tutte le categorie di Medici, non ha mai avuto inviti a partecipare alla Ctss.
Se si vogliono unificare le due Aziende sanitarie di Bologna, Ausl e Aosp, lo si faccia, se legalmente possibile, ma si tengano ben presenti e si risolvano le criticità che ho descritto, con una condivisione con i medici che vi lavorano che sia vera e non solo formale e a parole.
Photo credits: Corriere di Bologna
Mi sembra che la soluzione dell’USL unica sia peggio del buco; comunque se ne discuta con tutti gli interessi in campo, anche con i Pazienti, che lo sono sempre meno.
Se ne faccia occasione di un dibattito pubblico gestito dagli assessore della Sanità regionale, metropolitano e bolognese incontrando i cittadini nei quartiere e nei comuni.
L’impressione che se ne ricava appena se ne parla è quella di essere in prima classe in una nave che affonda: piano piano andremo tutti a mollo se non si reagisce.
Ugo Mazza
La cura della persona non può trasformarsi in una spersonalizzata catena di montaggio diffusa sul territorio (il medico che va da un ospedale all’altro).
Visto dall’ esterno, cioè da un estraneo ai lavori, mi pare che ci sia da un lato un piano di politica gestionale della/e azienda/e ospedaliera e della assistenza pubblica, e da altro lato la conduzione di settori specializzati nella cura della salute dei cittadini.
I due livelli richiedono controlli e interventi specifici, a mio parere molto diversi, basati su competenze diverse. Gli accorpamenti potrebbero generare mostri.