In una democrazia rappresentativa assurgere al ruolo di rappresentante dovrebbe voler dire subordinare l’Io al Noi, scindendo ciò che si è da ciò che si rappresenta. Un’opinione non può essere un crimine da sbattere a tutta pagina, ma nemmeno un vessillo da sventolare con fervore settario. Al netto delle polemiche cittadine sul carcere duro per l’anarchico Alfredo Cospito
di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB
Potendo scegliere dal mazzo delle recenti polemiche politiche cittadine, scarto più che volentieri la barzelletta del tesseramento Pd (entrate nel XXI secolo, santo iddio!) per concentrarmi sull’affaire, ben più serio, che ha riguardato la petizione per revocare all’anarchico pescarese Alfredo Cospito, detenuto nel carcere di Opera a Milano, il regime di 41-bis, cosiddetto “carcere duro”.
Non essendo un magistrato o un giurista, non ho intenzione di pronunciarmi sulle motivazioni che hanno portato l’ex guardasigilli Cartabia, nel maggio dello scorso anno, a ratificare la richiesta di 41-bis. Oltretutto, non avrei molto da aggiungere a quanto già scritto dall’ex procuratore aggiunto di Bologna Valter Giovannini, del quale peraltro condivido appieno l’invito «ad abbassare i toni».
Ciò che mi lascia perplesso, invece, è l’atteggiamento di contrapposizione frontale che i due schieramenti, pro e contro la revoca, hanno deciso di adottare. Perché se è vero che questo ormai è lo schema canonico in materia di dibattito pubblico, lo è altrettanto che chi scrive, insieme a tanti altri, spera sempre che la feroce dittatura dell’opinione di cui si è detto altre volte, prima o poi, crolli sotto il peso delle sue evidenti contraddizioni.
Innanzitutto comincerei l’analisi con l’autocritica, poiché vorrei capire che cosa possa spingere la redazione di un rispettabile giornale a pubblicare la notizia di un possibile attentato di matrice anarchica in città e, subito dopo, un trafiletto con la foto di Emily Clancy, firmataria dell’appello di cui sopra. Un accostamento che crea nessi impropri, già suggeriti dai toni con cui, nei giorni precedenti, lo stesso quotidiano aveva scelto di descrivere il dibattito scaturito in seno al Consiglio Comunale. Certo io nel difficile mondo della Stampa non sono nessuno, ma se c’è qualcosa da sottolineare, ritengo, non è certo l’opinione legittima della vicesindaca quanto l’infelice tempismo nel renderla pubblica (posto che, se la fortuna è cieca, la sfiga di norma ci vede benissimo).
Da lettore, poi, ho trovato molto più utile e interessante l’intervista sul tema a Lorenzo Biagi, figlio di Marco. Un’intervista che mi ha ricordato per tono e dignità quella che sua madre Marina Orlandi, confrontandosi con Marco Damilano, affidò alla platea di studenti che la venne ad ascoltare lo scorso 19 settembre, in occasione dell’iniziativa Il Futuro della Memoria. Parole che, se fossi in politica, attaccherei ai muri della mia cameretta. E non perché debbano essere necessariamente condivise quanto per ricordarmi che, quando si ha un ruolo istituzionale, la propria opinione conta ancor meno del solito, ossia come il due di coppe quando briscola è spade.
Diverso è invece parlare di Cospito come potenziale «vittima di Stato» e di «orgoglio» per una petizione di Accademia, come hanno fatto alcuni consiglieri comunali e di quartiere di Coalizione Civica. Perché in questo caso il rischio grosso, anche abbastanza evidente, è che se alle minacce seguiranno i fatti e ai fatti conseguenze gravi, mettersi la fascia tricolore e sfilare in parata non basterà a cancellare l’errore, politicamente fatale, di aver fatto il proverbiale passo più lungo della gamba.
In una democrazia rappresentativa assurgere al ruolo di rappresentante dovrebbe voler dire subordinare l’Io al Noi, scindendo ciò che si è da ciò che si rappresenta. Se ne accorse persino un Parlamento indegno e ricattabile, quando nel ’92 emise la legge che allora punì i ricattatori e oggi ricade sulle colpe dell’anarchico abruzzese. Per questo, pur non avendo firmato la petizione, un Parlamento che nel pieno esercizio delle sue funzioni decidesse di abrogare il 41-bis per tutti i reati di applicazione avrebbe il mio pieno sostegno.
Conoscendo un po’ questo Paese e le sue ipocrisie, sono abbastanza sicuro che tutto ‘sto ardore, tra gli intellettuali, in quest’ultimo caso non ci sarebbe. Ma come non vorrei finire in una lista di proscrizione per le mie opinioni, non troverei nemmeno il senso di riscoprirmene “orgoglioso”. Per rispetto delle vittime, molto più che dei carnefici.
Photo credits: Corriere di Bologna
Articolo molto saggio