Starbucks e il fascino dell’impermanenza

L’annunciata apertura di nuove attività in pieno centro ha suscitato le ire di tanti cittadini e il rimpianto per una Bologna che non esiste più. Ma il presente è figlio del passato, e queste novità vanno prese per quello che sono: un’occasione per nuovi posti di lavoro, in un Paese dove l’occupazione, soprattutto quella stabile, scarseggia da tempo

di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB


«Buongiorno! Posso esserle utile?». «Grazie, sto solo dando un’occhiata». È uno scambio che si sente spesso, dentro i negozi. Una domanda che ogni commesso di questo mondo è invitato a porre ai clienti, e alla quale ciascuno di noi ha risposto almeno una volta in vita sua in quel modo, sia stato per svincolarsi dall’attenzione del venditore con una scusa banale o per sincero desiderio di farsi finalmente stupire da qualcosa di cui ancora non si ha contezza.

Domanda e risposta legittime, in ossequio alle leggi di mercato. A maggior ragione quando si entra in un supermercato o in un grande magazzino multipiano, dove lo spaesamento è tendenzialmente naturale. Domanda e risposta innocue, considerando il fatto che non ho mai saputo di una qualche tragedia scaturita dalla conclusione del rapporto commesso-cliente che, inevitabilmente, ne segue.

Ancora più facile da risolvere mi pare il dilemma in merito al rapporto da tenersi con i negozi alimentari, che in questi giorni ha reso particolarmente caldo il dibattito bolognese. Una polemica che faccio fatica a comprendere, vuoi perché sono decisamente stupido o perché non sono mai riuscito ad appassionarmi a un tema – quello del cibo – che si trasforma irrimediabilmente in merda dopo circa due ore (tre, se avete problemi digestivi).

Posto dunque che cibo e bevande sono quelle che sono indipendentemente da chi te le vende, ed eleggere il bar o il ristorante prediletti è questione di gusti personali, l’unico aspetto valutabile con un discreto grado di oggettività, a ogni nuova apertura, è il suo valore sociale.

Sappiamo ormai tutti quale sia la tendenza da queste parti, e non da oggi. Puntare sul turismo e darsi il marchio di Food Valley ha fatto di questa città, come di tutta la regione, un luogo ideale per qualsiasi impresa di ristorazione. A qualcuno la cosa piace, altri inorridiscono, io penso semplicemente che siano posti di lavoro. Un elemento non da poco, in un Paese perennemente in crisi come il nostro.

È tipico di ogni società decadente concentrarsi innanzitutto sui piaceri del corpo, siano il sesso, l’estetica o il cibo. In assenza di prospettive intriganti, abbandonarsi all’epicureismo è il modo più semplice per curare l’ansia senza preoccuparsi troppo di quel che sarà. Certo possiamo dolercene e pretendere qualcosa di più e di altro. Ma se cercassimo un colpevole, reciterebbe Hugo Weaving, «non c’è che da guardarsi allo specchio».

Ha ragione il presidente di Ascom Enrico Postacchini, quando ricorda che, per la Bologna delle piccole botteghe, il treno è stato perso vent’anni fa. Di treni, aggiungo io, noi italiani ne abbiamo persi tanti altri, e non solo per quanto riguarda il commercio. Ma poiché indietro non si torna, tanto vale guardare avanti. Sia mai che qualcosa, alla fine, ti stupisca davvero.

Pur avendolo bevuto tante volte e senza patemi all’estero non so se, una volta aperto, andrò mai a prendere un caffè da Starbucks. Santo Stefano è un quartiere che non mi appartiene granché, e poi è in salita. Ma da cittadino sono contento che venti persone ricevano uno stipendio e forse un po’ di tranquillità, chiunque sia il loro datore di lavoro. Speriamo che duri…

Di certo, pur con qualche sforzo, come quando ero bambino farò un salto lì accanto per rivedere il teatro romano, tornato accessibile al pubblico grazie all’apertura di un Conad (se poi de’ Carbonesi sarà pedonale, ancora meglio). Non acquistavo niente allora e probabilmente non lo farò neanche in futuro, ma le rovine conservano in sé qualcosa che proprio non si può comprare. Chiamatelo, se volete, il fascino dell’impermanenza.

Photo credits: Teatro Romano Bologna


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