Ecco cosa c’è nelle 1700 pagine dell’ultima sentenza sulla strage alla stazione: per comprendere i “manovali del terrore” occorre sapere chi furono ispiratori e finanziatori. Anche se sono morti
di Aldo Balzanelli, giornalista
L’inchiostro con cui erano state stampate le 1700 pagine della motivazione dell’ultima sentenza sulla strage del 2 agosto non si era ancora asciugato che già alcuni “commentatori” ne mettevano in dubbio la tenuta, la coerenza, la solidità. È naturalmente legittimo mettere in discussione questa come altre sentenze, ma per farlo bisognerebbe partire da un presupposto: aver almeno letto le carte, sapere di cosa parla, aver fatto un piccolo sforzo di approfondimento. Invece no. Ecco riproporsi puntuale il ritornello dei giudici prevenuti, della magistratura bolognese condizionata dal desiderio di verità e giustizia della società civile, del mancato approfondimento di fuorvianti piste palestinesi, di convincimenti fondati su congetture più che su prove.
Verrebbe da dire perdona loro perché non sanno di cosa parlano (o forse lo sanno benissimo), ma vediamo invece di mettere in fila qualche punto fermo. Il tredicesimo (tredicesimo!) processo sulla strage del 2 agosto aveva tecnicamente soltanto tre imputati: Paolo Bellini, accusato di essere uno degli autori materiali dell’attentato, insieme a due personaggi sospettati di aver messo i bastoni tra le ruote delle indagini. Non era dunque il “processo ai mandanti” della strage, per una ragione molto semplice: quelli che la pubblica accusa indica come i probabili organizzatori e finanziatori dell’attentato, quattro dei protagonisti della strategia delle tensione degli anni Sessanta e Settanta (Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto d’Amato e Mario Tedeschi) sono tutti morti e quindi non possono essere processati. E allora come mai per giustificare la condanna di sole tre persone, tra le quali non ci sono “i mandanti”, i giudici hanno ritenuto di dover riempire oltre 1700 pagine?
Di queste, solo 700 sono dedicate all’elencazione delle circostanze che hanno convinto la Corte d’assise della colpevolezza di Bellini, Segatel e Catracchia. Sono peraltro pagine nelle quali si esaminano con grande perizia e dettaglio gli indizi e gli elementi di prova che portano alle singole responsabilità e hanno portato alle condanne, sia pure nel primo grado di giudizio.
Le altre mille pagine indagano invece il contesto nel quale maturò la strage di Bologna, a cominciare dal ruolo della Loggia P2 e dello “Stato parallelo” che in realtà tutto sapeva di quanto si muoveva nella galassia del terrorismo nero, ma si guardava bene dall’intervenire per sventare gli attentati. Alla bisogna entrava in campo per evitare che la magistratura arrivasse a identificare gli autori degli episodi criminosi, seminando il terreno di false piste, facendo sparire le prove, confondendo le acque.
Si giustifica questo ampio resoconto? Tratto da una lettura trasversale delle molte inchieste che in tutta Italia, soprattutto in Veneto e in Lombardia, hanno svelato molti dei segreti della galassia nera e i legami con gli apparati dello Stato. Non spetta ai giudici – affermano i critici della sentenza, di cui probabilmente hanno scorso soltanto l’indice – la valutazione storica, a loro spetta soltanto quella giudiziaria.
Invece “il contesto”, con i suoi protagonisti, è decisivo per comprendere il perché di una strage. Per evitare di immaginare che il più grave attentato avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra sia stato organizzato da un gruppetto di ragazzini invasati. Che la galassia del terrorismo nero abbia potuto agire indisturbata per almeno un paio di decenni grazie alle abilità degli aderenti e non per le protezioni delle quali ha sempre goduto. Il “contesto” mette in luce cosa si celava dietro la facciata “pura” dell’estremismo di destra, apparentemente diviso in mille rivoli, in realtà molto più compatto di quanto le diverse sigle volevano far intendere. Quali legami esistevano con i centri occulti del potere come la Loggia P2 e quella parte dei servizi segreti che spesso definiamo “deviata”, ma che in alcuni momenti era pienamente organica ai vertici delle istituzioni statali.
Ecco, in quelle mille pagine si racconta molto di tutto questo, con gli elementi di novità emersi nelle indagini della Procura generale: l’enorme somma di denaro transitata dai conti di Licio Gelli direttamente nelle tasche dei terroristi, il ricatto operato dello stesso Gelli minacciando di fare rivelazioni imbarazzanti se non gli fosse stata garantita l’impunità, le tante, troppe “premonizioni” dell’attentato, lo scenario dei gruppi eversivi nelle diverse fasi della strategia della tensione, la curiosa convivenza nella stessa via di Roma, via Gradoli, di un covo dei terroristi neri e di una base dei brigatisti che tenevano prigioniero Aldo Moro.
Il filo nero insomma che lega la strage di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) a Bologna, «l’ultimo episodio – secondo i giudici – della strategia della tensione».
Riflessione intelligente