Roberto Morgantini: «Le Cucine Popolari diventeranno nazionali»

Il prossimo obiettivo è l’ambulatorio dentistico popolare al Pilastro: «Una cosa faraonica da fare invidia ai ricchi, perché potranno entrare solo i poveri», rivela alla redazione del “Quindici”. Ma subito dopo vuole far diventare un marchio italiano quelle Cucine che già oggi sfamano 600 persone al giorno, mobilitano 250 volontari e tra i sostenitori hanno Stefano Benni e Alessandro Bergonzoni, Matilda De Angelis e Gianni Morandi, Ettore Messina e perfino i Metallica, che hanno donato 30mila euro

di Marco Ciccimarra, giornalista


Roberto Morgantini, 76 anni, spesi prima nel sindacato tra precari e immigrati, poi al servizio di clochard ed emarginati, ha creato un modello di solidarietà laica che piace anche ai cattolici. Amico di Lucio Dalla e del cardinale Matteo Zuppi, insignito dal presidente Mattarella del titolo di Commendatore dell’Ordine del Merito, resta però convinto di ricevere da chi sta peggio, più di quello che riesce a donare. In evidenza tra i contestatori di Salvini, guarda con preoccupazione alle scelte del governo Meloni: «Temo che il numero dei poveri sia destinato a crescere ancora».

Com’è nata l’idea di Cucine Popolari?

«Con Lucio Dalla. Per venti anni, alla pizzeria Napoleone, abbiamo fatto un pranzo della Befana per i senza casa. Qualcuno diceva: “Questi mangiano 365 giorni all’anno, non uno”. Raccolsi la sfida e decisi di aprire non una mensa ma una cucina popolare».

Lei e sua moglie avete lanciato una raccolta fondi per il vostro matrimonio. Come mai?

«Eravamo insieme da 38 anni. Cercavamo un motivo per cui valesse la pena sposarci e abbiamo fatto del crowdfunding».

Perché Moni Ovadia per celebrare il rito?

«Moni è un amico da sempre».

Avete mai organizzato incontri con le scuole per mostrare questo esempio di solidarietà?

«Sì, fin dalle elementari. Invitiamo i ragazzi delle scuole alle Cucine. Loro si siedono con gli ospiti o servono a tavola. Con l’Università, invece, stiamo facendo una ricerca con trenta studenti di antropologia per capire cosa potrebbe funzionare meglio».

Ci saranno nuove aperture?

«L’idea era di una Cucina in ogni quartiere. Siamo arrivati a quattro. I problemi sono tanti: viviamo di solidarietà, nessun volontario è pagato, non abbiamo finanziamenti pubblici fissi e le Cucine hanno costi per 300mila euro all’anno. Mancano Santo Stefano e Borgo Panigale-Reno: è uno sforzo grande ma con i volontari e le motivazioni ce la faremo».

Pensa sia possibile espandere il progetto a livello nazionale?

«A Cervia, Genova e Modena lo stiamo già facendo. A Cesena già funziona. C’è anche un’idea più nazionale: con Spi-Cgil c’è l’idea di provare a lanciarlo un po’ in tutta Italia».

Quanti pasti distribuite?

«Nelle quattro cucine 600 al giorno».

Da dove le arriva tanta energia?

«Ci ho messo poco di mio. Vengo da una famiglia partigiana. La casa era una grande cucina aperta. Mangiavamo pane e solidarietà. Non ricordo di aver mai mangiato solo con la mia famiglia. C’era sempre qualcuno: un parente, un amico, chi arrivava da lontano e raccontava la vita e la politica in altri paesi».

Il passato da sindacalista l’ha aiutata?

«Sì, ho fatto 43 anni di sindacato e negli ultimi mi sono occupato di immigrazione. Ricordo la via dei cartoni a Bologna, i primi immigrati sotto i portici. Sofferenza e disagio li toccavo ogni giorno. Quando arrivarono marocchini e senegalesi attivammo 20 scuole gratuite di italiano. Erano senza casa, il loro recapito era all’ufficio postale. Ti leggevano cosa dicevano i genitori, le loro ansie e gli affetti che mancavano. Il bisogno di fare c’era e continua a esserci».

Chi viene a mangiare a Cucine?

«C’è di tutto: chi viene inviato da servizi sociali e parrocchie… ma abbiamo aperto a chiunque. Se hai fame, ti siedi e mangi con gli altri. Sono nate molte amicizie. Una mia amica ha ospitato per tre mesi due profughi afgani con un bambino, che vivevano nelle case occupate, poi ha trovato un lavoro per il padre e un appartamento. Se mangi e li guardi negli occhi, non puoi rimanere insensibile. Ognuno di noi ha una fetta di solidarietà dentro».

In quale quartiere c’è più affluenza di persone in difficoltà?

«In via Battiferro, al Navile. Non c’è prevalenza fra italiani o stranieri. Il 35% delle famiglie è composto da una persona, spesso anziana. A 70-80 anni non esci di casa, rimani da solo, mangi quello che mangi. La mancanza di relazioni è l’altra faccia della povertà e va combattuta».

Ci sono ospiti che hanno lavorato con voi?

«Tanti. Li vedi trasformarsi: si lavano, si pettinano, cambia il loro rapporto con gli altri. Non sono solo ospiti. In via Battiferro, insieme, puliamo il parco e le scritte sui muri: i “paciughi”, non i graffiti che mi piacciono molto. Una volta sul ponte di Stalingrado abbiamo fatto una festa e gli artisti hanno fatto un chilometro di graffiti».

Sono in aumento le persone che vengono a chiedere aiuto?

«Dalla pandemia abbiamo più che raddoppiato i pasti: una richiesta preoccupante».

Le misure del governo possono fare crescere il numero di persone in difficoltà?

«Sì. Anziché combattere la povertà, sembra combattano i poveri. Non sono del tutto d’accordo con il reddito di cittadinanza, ma ha salvato molti. Il vuoto che lascerà porterà all’aumento dei poveri».

Per diventare ospiti fissi bisogna essere riconosciuti tali. Da chi?

«Da assistenti sociali dei quartieri e della parrocchia. La Cucina all’inizio era laica, poi abbiamo conosciuto il parroco don Isidoro. Ne è uscito un matrimonio perfetto».

Quali requisiti deve avere un ospite fisso?

«Si guarda al reddito oppure se qualcuno è solo o ha delle situazioni particolari».

In che città si sentono di vivere le persone che incontrate?

«Se vengono qui è perché hanno dei problemi: precari, disoccupati, anziani. Noi, però, non ci fermiamo al pasto. Copiando da Napoli il caffè sospeso, abbiamo inventato il panino sospeso, la pizza sospesa… In cinquanta hanno il posto allo stadio e abbiamo portato a teatro persone che non ci erano mai state. Vedere le loro espressioni era commovente, è l’aspetto che gratifica di più».

E lei come ha visto cambiare Bologna?

«Vengo dalla Val d’Ossola, ma ho amato Bologna prima ancora di conoscerla. Sono troppo di parte per trovarle dei difetti».

Quante persone lavorano con voi?

«I volontari sono 250-260. Molti pensionati, che hanno più tempo, ma anche una presenza forte di giovani. Durante la pandemia chi aveva 65 anni non poteva fare volontariato. In 15 giorni abbiamo raccolto 502 nuove disponibilità: la maggior parte erano giovani».

Chi sono i cuochi di Cucine Popolari?

«Il grosso è composto dalle feste dell’Unità. Ci sono molti volontari e una lista di attesa per far lavorare tutti. Ogni giorno c’è un cuoco diverso».

Collaborano con voi anche cuochi professionisti o chef?

«Sì, ogni tanto passa qualche chef. Con loro e con Andrea Segrè abbiamo fatto lo ‘sprecometro’ e scritto “Buttami in pentola” con le ricette di una quarantina di cuochi per non buttare niente. Siccome a scuola il 70% dei ragazzi non mangia pane e frutta, facciamo il giro per recuperare il cibo».

Avete raccolto la solidarietà di volti noti e celebrità. Chi sono gli amici di Cucine?

«Sono tanti e spero crescano. È passata la Cnn. I Metallica hanno donato 30mila euro, come Ettore Messina. C’è stata una donazione di Bankitalia. Gianni Morandi viene a tutte le iniziative. Hanno partecipato Bergonzoni e Matilda De Angelis. Il primo a credere in noi è stato Stefano Benni».

Ha fatto tante cose con Dalla. Come lavoravate insieme?

«Sì, cominciammo con “Piazza Grande” nel ’93. I senza fissa dimora dicevano: “È uno di noi”. Poi continuammo con i concerti in carcere, i corsi per stranieri, da “Napoleone” dava 50 euro a ognuno di loro».

E il cardinale Matteo Zuppi? Anche lui sembra un amico.

«Ha messo insieme mondo laico e cattolico con naturalezza. Appena arrivato, gli dissi: “C’è una fabbrica occupata che rischia di chiudere”. Mi ha risposto: “Dove? Andiamo!”. Il predecessore con i profitti della Faac finanziava il Bologna Calcio con un milione e mezzo, Zuppi ne ha dati cinque per affitti, studenti e bisognosi. Il cambiamento si è sentito».

Quanto conta il sostegno del Comune?

«Col Comune abbiamo un buon rapporto. Ci sono gli empori solidali, le raccolte alimentari… Tre Cucine sono ospitate in centri sociali del Comune, per cui non paghiamo l’affitto. Ma non vogliamo essere “dipendenti” dal Comune, siamo gelosi dell’autonomia».

Ci sono imprenditori che vi aiutano?

«Sì, ci sono Coop, Conad, Granarolo, Hera, Tper…».

E Cucinella?

«Con “Chi ha fame non ha i denti” vogliamo aprire uno studio dentistico gratuito. L’Acer ci ha fornito la sede e abbiamo pensato a un architetto amico e conosciuto. Cucinella ha fatto un progetto fantasmagorico in una zona del Pilastro: coprire i portici e la sala d’attesa di vetri. Una cosa faraonica, da fare invidia ai ricchi perché potranno entrare solo i poveri. Costa 300mila euro. Azimuth ne ha messi a disposizione 50mila, 30mila la Curia…».

I dentisti ci sono?

«Sì, ma il problema erano gli odontotecnici. A Bologna sono 300. Se la metà fa un intervento gratuito all’anno, riusciamo a coprire tutto con l’aiuto dell’Università e della clinica odontoiatrica di via San Vitale».

Ha mai avuto “fame” di un aiuto che da questa città non è arrivata?

«Sarà che riesce un po’ tutto (ride, ndr), faccio fatica a trovarne. I donatori sono tanti, il problema è fidelizzarli e per questo lanceremo una campagna».

La soddisfazione più grande in questi anni?

«Tante. Anche se banale: è più quello che ricevo che quello che do».

La situazione più toccante?

«Entrano alle Cucine marito e moglie anziani, lui non vedente. Finito il pranzo, insiste per dare qualcosa. Dice: “Questi sono per voi”. Ha continuato fino alla morte a darci 450 euro al mese. Mi ha emozionato un bel po’».

Sindacalista Cgil, sempre a sinistra. Le hanno mai offerto candidature importanti?

«Sì, ma ho sempre rifiutato. Io sono un pragmatico e ho scelto di fare politica nel quotidiano, vedendo e toccando. La politica è difficile per chi la fa con la ragione e col cuore. Io l’ho fatta da sindacalista e oggi i miei figli mi rimproverano un po’ perché ero sempre in giro. A Natale, per dire, ero all’associazione del Bangladesh».

Chi è stato il miglior sindaco di Bologna è come si trova con Lepore?

«Zangheri. Con Lepore mi trovo bene. Abbiamo fatto diverse cose insieme: l’iniziativa dei graffiti sul ponte di Stalingrado siamo riusciti a farla anche grazie a lui».

Cosa pensa dei provvedimenti del governo Meloni sull’immigrazione?

«Non so se è ancora nella fase della propaganda. Ha cambiato idea su molte cose, non so se è per opportunismo… ma rimangono sempre quello che sono e che erano».

Lei ha contestato Matteo Salvini. Perché, secondo lei, non dovrebbero votarlo?

«Per decenza, credo. Andava nei campi nomadi a provocare. Organizzavano queste cose per essere aggrediti. C’era il servizio d’ordine, la Digos che li aspettava al casello di Borgo Panigale e loro cambiavano strada».

Sull’invio di armi all’Ucraina è stato contestato da un amico, frate Benito Fusco, più pacifista di lei.

«Non è una scelta facile. Anche con Zuppi ho discusso un po’. Continuiamo ad avere dubbi, ma bisogna agire. La diplomazia deve prevalere, se non si difende l’Ucraina è finita».

Comunque le è dispiaciuto?

«Ha detto che mi avrebbe tirato una bibbia in faccia (ride, ndr). Ma tutti gli anni facciamo il pranzo di Natale alla Chiesa dei Servi. Siamo in ottimi rapporti e continueremo a esserlo».

Lei è stato marxista. Si sente un po’ orfano?

«Siamo un po’ persi e disorientati. La speranza è che prevalga un’ideologia dei diritti e della solidarietà per un mondo che può cambiare».

L’articolo è stato realizzato per Quindici (qui), il quindicinale del Master in Giornalismo dell’Università di Bologna. (Photo credits: InCronaca)


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