Le memorie del giudice Mancuso

La lotta armata delle Br e le vicende criminali dei fratelli Savi: sono episodi tenuti insieme dalla storia professionale dell’ex magistrato. Racconta e commenta i capitoli della Bologna di ieri e di oggi, dalle rapine dell’Uno Bianca fino alla mobilitazione per Cospito

di Marco Ciccimarra, giornalista


Durante la sua carriera Libero Mancuso, 81 anni, si è occupato di episodi di storia criminale bolognese, che hanno lanciato tristemente la città anche sulle pagine delle cronache nazionali. Si tratta di un periodo che spazia dalla bomba alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, per cui seguì il primo processo da pubblico ministero, all’omicidio Biagi. Tra i fondatori di Magistratura democratica, ha dedicato quasi tutta la propria vita alla toga, con un passaggio come avvocato prima della pensione. Negli anni non è mancato l’impegno politico. Nel 2006 viene nominato assessore alla sicurezza nella giunta Cofferati a Bologna. Sette anni dopo corre come sindaco di Camugnano, perdendo per 24 voti. La sua storia professionale potrebbe presto diventare un libro autobiografico, i capitoli si preannunciano tanti e intensi.

Come magistrato ha presieduto la Corte di Assise di Bologna che condannò nel 2005 i brigatisti, per l’assassinio del professore Marco Biagi. Quando la sera del 19 marzo 2002 il giuslavorista venne freddato in via Valdonica al rientro a casa, Mancuso visse subito l’episodio da vicino: «Si sparse la voce immediatamente. Io ero in compagnia di alcuni colleghi di Marco Biagi e così andammo sul posto la notte stessa del fatto. Si era creata una piccola folla di persone. Ci rendemmo conto che era una grande tragedia e che le Brigate Rosse attaccavano a Bologna».

A 21 anni dall’omicidio molto è stato raccontato delle Br-Pcc, ma un aspetto, secondo Mancuso, non è stato pienamente compreso: «Credo sia stato dato troppo spazio a una cittadinanza della sinistra delle Brigate Rosse. Invece hanno svolto un ruolo reazionario, che ha danneggiato il nostro Paese». La compagine brigatista realizzò l’omicidio a Bologna durante il duro confronto tra il secondo Governo Berlusconi e i sindacati sulla riforma del mercato del lavoro e lo stralcio dell’articolo 18. «Cercavano pretesti per generare tensioni e paura – prosegue il magistrato – e per far arretrare il Paese e bloccare i processi di democratizzazione».

Il terrorismo ha costituito un filo rosso nella carriera dell’ex-magistrato. Infatti, sono due i casi da cui si è più sentito coinvolto, entrambi legati alla lotta armata negli anni di lavoro a Napoli: «Ci fu il tentativo di Senzani di arruolare tra le proprie file persone dell’emarginazione campana, il rapimento di Ciro Cirillo con l’assassinio della guardia del corpo e il successivo tentativo di liberarlo dei cutoliani. Riuscirono a entrare nel super-carcere di Trani e a presentarsi come coloro che avevano ricevuto il vantaggio di circolare nelle carceri e intimidire i brigatisti detenuti da parte del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, una roccaforte del potere giudiziario. Tutto questo consentì il pagamento di un riscatto di un miliardo e mezzo nelle mani di Senzani da parte di esponenti delle istituzioni e la liberazione di Cirillo».

A decenni di distanza da questi avvenimenti, la possibilità di una nuova scia di terrorismo – questa volta di matrice anarchica – è tornata a inquietare l’opinione pubblica. Il 31 gennaio Bologna si è ritrovata sotto minaccia: una telefonata anonima al “Resto del Carlino” preannunciava un attentato anarchico in città in relazione alla vicenda di Alfredo Cospito. Tuttavia, per Mancuso la minaccia anarchica, in quanto a serietà, «non esiste. Sono frange molto limitate di una lotta che non ha senso e che gli anarchici portano avanti in maniera dissennata e perdente». A suo avviso non sembrano esistere somiglianze con i nuclei brigatisti nel modo di operare: «È possibile che le imprese criminali delle Brigate Rosse abbiano fornito ad altre forme eversive suggerimenti circa l’attacco allo Stato ma più di questo non c’è».

Anche le vicende della Banda della Uno bianca hanno incrociato la carriera di Mancuso. E nel marzo scorso la pubblicazione delle dichiarazioni spontanee ai pubblici ministeri di Roberto Savi, risalenti a oltre un anno prima, hanno riconsegnato all’attualità le vicende del gruppo criminale. Rapine, 23 omicidi e oltre cento ferimenti sono stati portati a termine tra il 1987 e il 1994 a cavallo tra Emilia-Romagna e Marche. L’ex assistente capo della polizia, all’ergastolo, ha rivelato di aver compiuto con l’estrema destra negli anni ’70 a Rimini attentati senza vittime con ordigni di lieve intensità. Tuttavia, ha smentito con una dichiarazione al telefono alla sua avvocata De Girolamo che esistesse una matrice politica per le azioni compiute negli anni di attività della banda. «Una contraddizione di Roberto Savi che conferma la natura eversiva delle azioni», spiega l’ex-magistrato.

Nel 1997 presiedeva la Corte d’Assise di Bologna, che emise le sentenze contro il gruppo criminale. Riteneva già allora che esistessero finalità terroristiche nel loro operato criminale, riportandolo anche nella sentenza, ma l’accusa non aveva portato a giudizio quest’imputazione. «La radice politica la ammette Savi – prosegue – e comunque era nelle cose, nella natura dell’attacco di una banda di poliziotti contro l’ordine pubblico e contro la civile convivenza. Soprattutto, era negli obiettivi: nomadi, uomini di colore. Esisteva anche uno sfondo razzista di questi attacchi». Diverso è il parere in merito all’esistenza di un movente politico dietro gli attacchi alle Coop: «È possibile, però è molto riposto. Bisogna che lo dichiarino i protagonisti di questi assalti. Peraltro il loro disegno era quello di fare un ultimo colpo contro una delle Coop più dotate di ricavi e poi smettere».

Dopo aver pubblicato Una mala vita. La vera storia di Angelo Moccia, uscito nel 2015, ora Mancuso pensa a un libro che racconti la propria storia: «Ci sto lavorando e non è semplice. Penso che ci vorranno mesi, ma riuscirò a ricostruire un po’ tutta la mia vicenda professionale. Ho avuto momenti di grande tristezza e momenti di esaltazione per i risultati raggiunti». La sua, dice facendo un bilancio, è stata «una carriera contrastata. C’era il Governo Berlusconi quando feci alcune domande che vennero respinte. Raccontavo che Berlusconi era uomo della P2 e si tentava di tutelare con ogni sforzo l’attendibilità di questo presidente del Consiglio. Tutto si poteva pensare tranne che fosse un uomo adeguato all’incarico delicato che ha rivestito».

L’articolo è stato realizzato per Quindici, il quindicinale del Master in Giornalismo dell’Università di Bologna


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