Bologna città 30 non è (solo) ideologia

Lo scontro è sano, regala il senso dell’evoluzione, ed è bello quando si mantiene nei confini del sensato, mentre su alcuni temi si fa fatica a tenere dritta la barra della logica. Simulando i “percorsi 30” in diverse città d’Italia, si scopre che portano a una perdita di tempo quasi completamente incalcolabile per quanto minima. Bisogna però essere bravi a evitare che le misure sembrino una imposizione punitiva

di Andrea Femia, consulente digitale cB


Dietro ogni cambiamento radicale ci sono posizioni radicalmente opposte. È logico che sia così, pensate che centinaia di anni fa in Inghilterra hanno coniato la locuzione “status quo”, e si sono ingegnati nell’utilizzare il latino per rendere il senso di un concetto ancora più arcaico.

Vabbè, sorvoliamo sul fatto che ci facciamo rubare le espressioni dagli inglesi per poi farle nostre.

Dicevo, hanno dovuto inventare una locuzione specifica per definire ciò che una fetta consistente della popolazione non cambierebbe mai e poi mai, e una fetta tendenzialmente crescente – che parte spesso da movimenti minoritari – di popolazione vorrebbe invece vedere alterata. Lo status quo in oggetto è quello che conosciamo. Sulle strade di Bologna ci sono incidenti che si potrebbero evitare. O meglio, ci sono incidenti che causano morti che si potrebbero evitare, e se per qualcuno questa situazione è tutto sommato accettabile, poiché la morte è uno dei rischi generati dal benessere, per altri questa cosa è intollerabile.

Dietro tutto questo si annida inoltre un ulteriore elemento di valutazione. Per molti, la pretesa di una città 30 è una “castigazione” forzosa da infliggere ai proprietari di automobili, per il solo fatto di avere un’automobile e di usarla. E non è del tutto da escludere che ci siano degli individui che possano ragionare anche portando all’estremo questo concetto, ma non per questo si può ritenere che tutto ciò sia identificativo di un provvedimento filosofico prima che meramente amministrativo.

Lo scontro è sano, regala il senso dell’evoluzione, ed è bello quando lo scontro si mantiene nei confini del sensato, mentre su alcuni temi si fa fatica a tenere dritta la barra della logica. Un po’ perché ci si arrocca su posizioni che diventano troppo identitarie per poterle discutere, da un lato e dall’altro, e questo genera conflitti caricaturali. Un po’ perché ci si dimentica che questo tipo di cambiamenti prevedono la necessità di lasciare da parte l’ideologia altrimenti si rischia di finire per far sì che le misure sembrino l’imposizione di una parte della città – che la voleva – sull’altra, che non solo non la voleva, ma rischia di arrivare a odiarla.

Qui non c’è ideologia che tenga, gli indicatori sono pressoché unanimi. Simulando i percorsi “30” nelle diverse città d’Italia, si scopre che i percorsi portano a una perdita di tempo quasi completamente incalcolabile per quanto minima. Il numero di incidenti mortali si riduce drasticamente. Bologna prima grande città d’Italia a 30 all’ora, così come la nuova proposta di legge nazionale redatta dall’ex assessore Andrea Colombo per imporre lo stesso limite in tutti i centri abitati del Paese, sono un inno alla logica prima ancora che un motivo di orgoglio per chi ha sempre sostenuto questa battaglia a livello locale.

E non riesco a non inserire questo piccolo aneddoto biografico riferito a quando mio nonno, non esattamente Schumacher alla guida, era solito deridere chi lo superava su strade abbastanza insicure (non so se conoscete la s.s.106) con frasi del tipo «dimmi tu se uno si deve ammazzare per risparmiare un minuto».

È vero che quando sei in ritardissimo un minuto può cambiarti la giornata tra un richiamo a lavoro e uno del tuo compagno o della tua compagna che ti rinfacciano di non aver portato il latte a casa ESATTAMENTE a quell’ora.

Ma insomma, è un minuto. Basterà posizionare la sveglia 120 secondi prima, così uno può arrivare addirittura in anticipo.

Rimane il tema, enorme, dei controlli. Ma è un tema che vale ovunque, non solo qui. Di recente ero a Bruxelles, su un Uber, e il conducente guidava a 45orari su una strada il cui limite erano i 30km/h. Ovviamente non pensavo cose tipo “LEI È PAZZO!”, ma mi interrogavo su quante telecamere e quanti vigili servirebbero per controllare tutto questo. È impossibile, ma è anche ragionevole che sia impossibile, a meno che uno non voglia vivere in un mondo completamente costellato di telecamere.

Una persona rispetta il codice della strada perché è il codice della strada. Chiaramente l’autovelox aiuta a ricordarti i limiti. Per tutto il resto ci sono i cartelli.

Li insegnano a scuola guida.

Photo credits: La Repubblica


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