Lettera 23 – A Giovanni Mecca Ferroglia

Dopo l’iniziativa “La Libertà è difficile e fa soffrire”, ospitata dalle nostre pagine in occasione della Festa della Liberazione, pubblichiamo ora le lettere inviateci dai lettori che hanno deciso di aderire all’appello lanciato nelle settimane scorse dalla presidente provinciale Anna Cocchi e da Mattia Fontanella (qui)

di Enrico Parsi, direttore Scuola Coop


Caro Giovanni, oggi è il 25 aprile. Scrivo a te perché con la lettera a tua madre e a un tuo compagno partigiano scritte prima di morire, hai rivelato, senza accorgertene, quegli ingredienti costitutivi di una vita che vorremmo e avresti voluta piena e felice: amicizia, amore generativo, senso di giustizia, libertà, rispetto, senso di appartenenza e protagonismo nella realizzazione di qualcosa che valga per sé e per gli altri, crescita umana e intellettuale.

Ti scrivo anche perché con una pennellata rapida determinata dal tempo che non avevi più a disposizione, hai accennato al processo che hai subito. Un dettaglio che mi è risuonato e ho riconosciuto come vicino.

Sei morto perché antifascista e per questo oggi ti ricordiamo, contrapponendoci a chi vorrebbe far dimenticare la tua storia o sminuirti. Sei morto, ma non lo volevi. Non è stato un tuo sacrificio per noi, come a volte ci siamo raccontati per rendere accettabili morti che accettabili non sono. Semmai ti hanno sacrificato, in nome di quei teschi, simboli di morte, stampati sulle loro uniformi. Sei morto perché vivevi come un uomo che liberamente voleva scegliere come vivere e che nella parte finale della sua vita breve ha scelto e deciso di combattere per questo. Ha scelto di essere attivo e non passivo, responsabile e perciò vivo.

Oggi, da almeno trent’anni, abbiamo a che fare con politici che rivalutano il fascismo con scelte di governo e gesti brutali accompagnati da battute che trasformano di volta in volta i politici inviati al confino in vacanzieri, le stragi naziste in banali risse dove a qualcuno è scappata la mano, il 25 aprile in una celebrazione tra le altre, a cui magari sottrarsi. Fascisti brava gente, criminali edulcorati, bontemponi che hanno seminato orrore, ma senza farlo apposta.

Tu sei stato ucciso con un atto di imperio che presuppone una cosa molto semplice, purtroppo duratura, che sostiene e supera anche le più odiose ideologie: l’idea di superiorità. La legittimità di uccidere presuppone relazioni basate sul dominio. E naturalmente, tendendo il filo al massimo, quando si creano le condizioni, spesso in guerra, quale altra forma di dominio può essere più eclatante, e per alcuni motivo di piacere, che togliere la vita? Uccidere, quando ci si convince di essere superiori, può diventare anche un lavoro, una cosa normale a cui ci si abitua, come accaduto nei lager nazisti.

Purtroppo, la nascita e il consolidamento delle istituzioni democratiche non hanno fatto evaporare questo tratto della nostra cultura. Le relazioni di “dominio” e altre forme di autoritarismo sono rimaste presenti nella maggior parte dei nostri rapporti sociali. Nelle nostre organizzazioni gerarchiche e nel mondo del lavoro, quando il mobbing racconta che fare branco è molto più facile di quanto si pensi; nelle logiche del più forte e del più visibile che hanno sostituito i contenuti della politica alta virando verso forme di pura manipolazione; nella svalutazione del lavoro manuale e del lavoro intellettuale, riuscendo nell’impresa di metterli l’uno contro l’altro. Nella svalutazione delle donne e comunque di chi non è “maschio” e quando si vuole imporre come “normale” un unico modo di vivere la sessualità, un unico modo di pensare la famiglia.

Nella tua lettera all’amico partigiano racconti di un processo farsa, costellato di sorrisini di scherno e risa sguaiate al momento della tua condanna. Ma anche fosse stato un processo legale, non cambierebbe il giudizio. Legittimare con la legge la pena di morte è ingiusto come se si rendesse legale uno stupro. Il processo può essere anche formalmente ineccepibile, ma il male resta alla radice. In Italia e in molti Paesi del mondo la pena di morte è stata abolita. Però si può uccidere la vita rendendola dura, triste, insostenibile, immodificabile. L’idea di dominio, il presupposto di superiorità, sono ingredienti necessari a questo esito. A molte persone sono negate la cultura e la possibilità di acquisire nuove parole. Di fatto significa imprigionare e uccidere la mente e il cuore, inviarli al confino, in luoghi stretti e angusti dove la linea d’orizzonte è limitata da pochi semplificati e impauriti schemi che impediscono di gioire delle diversità del mondo. E poi l’uso di parole belliche che testimoniano un immaginario di guerra che fluisce nelle nostre vite come un dato di natura. Per motivarci usiamo costantemente metafore belliche che mostrano senza ombra di dubbio quale immaginario competitivo ci animi, non solo nell’economia. Credo non sia un caso, se alcuni dei tuoi compagni, nelle loro lettere di addio, suggerivano ai più giovani di studiare.

Ma c’è di più, caro Giovanni. Oggi stiamo capendo che si può decretare la pena di morte anche senza una legge che la contempli e al riparo da qualsiasi conseguenza. Per esempio, è possibile salvare dei migranti imponendo però lo sbarco della nave che ha raccolto centinaia di persone in un porto lontano. Con la conseguenza di lasciarne morire altrettante che non troveranno soccorso per giorni. Come nel tuo caso, si uccide in completa impunità e legalmente senza nemmeno conoscere i volti e i nomi delle vittime. Dormendo tranquilli la notte. Convinti di essere giusti. Senza pagare alcun conto. Mi sembra di riconoscere in questi comportamenti le risate sguaiate dei tuoi assassini al momento della tua condanna.

Ma c’è una cosa che lega la tua vita a quella di molti di noi. Una storia che racconta, in tempi diversi da quelli di una violenta guerra civile e di liberazione, quanto gli ingredienti di vita implicati dalle tue parole siano ancora vivi, forse senza tempo: amicizia, amore generativo, senso della giustizia, libertà, senso di appartenenza e protagonismo nella realizzazione di qualcosa che abbia senso per sé e per gli altri, rispetto, crescita umana e intellettuale. Ci sono state in tutti questi anni e ci sono nel nostro Paese, ora, tante persone e tanti giovani, anche della tua età, che la loro battaglia antifascista la fanno in modi diversi con quegli stessi ingredienti. Cercano di realizzare un mondo migliore qui e ora. Sono protagonisti di progetti che non separano economia e socialità. Realizzano progetti di cura rivolti a sé stessi e agli altri e a luoghi dove vivere vita piena. Sono persone che si organizzano per stare insieme con equilibrio e senza sprecare energie in infinite lotte per dominarsi a vicenda. Donne e uomini generativi che ridanno vita a luoghi che erano moribondi.

Sono tanti e spesso non si conoscono tra loro, ma da Udine a Palermo, da Napoli a Torino, da Siena a Milano, da Rovereto a Berchidda, insegnano che ‘resistere è creare’. Creare relazioni diverse con passione, rigore, formazione, fantasia e anche un po’ di leggerezza. Quella leggerezza che i fascisti conclamati o meno di ogni ordine e grado, proprio non sopportano.

Per questo credo che più che celebrare la tua morte come esempio, sia meglio celebrare la tua vita. Perché la vita si costruisce con la vita. E tu vivevi nella tua lotta. Ed eri esattamente vita, quando ti hanno imposto di morire.


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