Cuneese trapiantato a Bologna da tre anni, Christian Peirano, in arte Chrprn, classe 1989, è un artista dalle mille risorse e dal segno deciso, che stiamo tutti imparando a conoscere attraversando le strade della nostra città, dai cui muri i suoi lavori ci sorprendono – tra gli ultimi la bellissima immagine del 25 aprile dedicata al “fiore” della Resistenza – ci fanno fermare per una foto o anche solo per leggere, guardare e – subito o più tardi – riflettere
di Lara De Lena, storica dell’Arte
Ogni suo lavoro racconta qualcosa di intenso, incredibilmente semplice, ma complesso se introiettato nel nostro vissuto. E per conoscere meglio Chrprn, eccovi un’intervista rilasciata in esclusiva al Cubo, nella quale ci rivela molto della sua arte, ma non solo…
Christian, lei ha studiato pittura e lavora nel marketing. Nei suoi lavori si vede una crasi tra questi due medium così diversi. C’è una capacità di sintesi e qualità nelle sue sagome: l’utilizzo del contorno netto, l’abilità di riportare in pochi tratti l’espressione, la temperatura, il carattere, qualcosa che racconta molto di chi è ritratto senza di fatto raccontare nulla di specifico, o almeno questo è ciò che accade quando la persona ritratta non ha una storia conosciuta ai più (come per esempio, è stato per i ritratti di Duchamp, Zaki, Dalla e altri). Come è arrivato a elaborare la sua cifra stilistica?
«Sono laureato in pittura, ma durante tutto il mio percorso accademico non ho mai dipinto (ride). Arrivavo dal liceo artistico, grafica, mi ero appassionato in quel periodo alla serigrafia quindi mi piaceva sperimentare in questo modo. La pittura nei miei lavori arriva circa tre o quattro anni dopo la laurea: la mia psicologa mi ha semplicemente suggerito di provare a tirare fuori alcune cose che avevo dentro con il disegno, visto che sapeva che era qualcosa che mi piaceva fare, e in quel momento ho sentito una necessità di usare il colore, sporcarmi le mani un po’ di più rispetto ai processi di stampa. Come sono arrivato a fare quello che faccio adesso, stilisticamente parlando anche, fondamentalmente è un po’ il frutto di tutto quello che ho fatto. C’è moltissimo della grafica – la linea nera, i mezzi toni – a cui ho aggiunto una parte tutta pittorica, tant’è che i dipinti che metto in giro sono tutti originali, semplicemente acrilico su carta. Il mio stile si è delineato nel tempo, ancora adesso cerco un po’ di aggiungere, cambiare qualcosina nel mio processo. Mi diverte anche un po’ sperimentare, ecco. Non è una decisione presa a tavolino, è frutto di anni di prove, tentativi: ogni volta tieni quello che ti piace e cambi il resto. Adesso, bene o male, i cambiamenti che faccio sono molto minimi, la gente spesso non li nota ma per me sono grandi cambiamenti: aggiungere un nuovo colore, passare dal rullo al pennello, sono cambiamenti miei più che nel risultato».

Quali sono stati i suoi modelli? Da chi è partito (se è partito da qualcuno) per costruire la sua identità? E a proposito di questa identità, da cosa nasce il suo pseudonimo?
«Inizio subito con lo pseudonimo: Chrprn banalmente è una storpiatura del mio codice fiscale e quindi non è stata una scelta diciamo molto pensata (ride). Mi ero trovato anni fa – facevo già street art in maniera un po’ diversa, più da bombolette direttamente sui muri – avevo un altro nome e quando mi è arrivata una multa ho capito che forse dovevo essere meno riconoscibile. Nel codice fiscale – che io trovo molto riconoscibile – non ci sono in realtà elementi che portino realmente a me. Nessuna poesia dietro il mio pseudonimo, è stata solo necessità. I modelli da cui sono partito invece non li saprei identificare. Ciò che mi piace guardare è molto diverso da quello che mi piace fare. E questa cosa è sempre un po’ difficile da spiegare. Ad esempio: amo Van Gogh, la pittura materica, istintiva, qualcosa che se faccio io non mi piace, non mi soddisfa, non è mai quello che voglio, non è il mio modo di esprimermi. Ho scoperto il mio modo di esprimermi che però non è quello che mi piace guardare. Non ho un modello. Il mio modello sono stati i miei tentativi, cosa mi faceva effettivamente stare bene e come. Poi sicuramente la grafica, dall’arte alla pubblicità, mi è stata di ispirazione. Tutte le cose che incontro e che mi piacciono, che faccio mie, diventano un’ispirazione anche se non sono in grado di capire quanto questo processo sia conscio».
Leggendo di lei si impara che il suo lavoro parte sempre dalla persona ritratta, dal suo vissuto personale. Sceglie qualcuno, poi ci instaura un rapporto e infine questo rapporto viene in qualche modo “donato” al pubblico. Ciò che le interessa è il rapporto con queste persone, rapporto che può partire dalla rete, dai social, ma poi diverta sempre un dialogo a due che, una volta trasposto nell’immagine, non riguarda più solo voi due, ma tutti quelli che ne fruiranno, e che immagineranno una storia da quello che leggono e che vedono. È un po’ come il concetto di opera aperta di Umberto Eco, ciascuno ci potrà leggere la storia che vuole e questa storia potrà anche cambiare nel tempo perché – come sappiamo – la street art è effimera e qualche pezzo di storia se ne può andare con uno strappo. Quello che si percepisce guardando i suoi lavori sui muri della città o sui social è sempre che dietro c’è una storia e che questa storia è intensa, anche perché c’è la mediazione del testo. La storia vera però la conosce lei. Ci vuole parlare di come avviene questo processo?
«I temi che tratto, molto intimi e personali, parlano anche di me, tant’è che spesso la figura maschile ritratta nei miei lavori sono proprio io. All’inizio non era facile, nel momento in cui la gente inizia a notare quello che fai e chi sei ti domandi se è quello che vuoi davvero, che tutti sappiano di te. Ho iniziato a pensare che stavo regalando i miei punti deboli a chi mi vuole attaccare. Poi man mano il tutto si è evoluto e mi sono reso conto che nel momento in cui metto in strada i miei lavori è come se ne prendessi le distanze e li lasciassi vivere la loro vita: sono io, ma non c’è più un filo diretto, ho dato il mio lavoro al pubblico e riesco a mettermi dall’altra parte guardarlo anche io in quel modo. Chi lo critica, non sta più criticando me. I miei lavori sono come dei bambini, li cresci, ma poi escono di casa e si fanno la loro vita. Ecco: nel momento in cui l’ho messo sul muro si sta facendo la sua vita».

Spesso ha parlato del suo lavoro come una terapia che l’ha aiutato a placare i tuoi fantasmi. Questo, se capisco bene, vale per il fare arte in sé, il dipingere, l’accostarsi ai propri soggetti, il lavorare in studio e poi a contatto con lo spazio urbano. Ma come la mettiamo poi con la reazione da fuori? Si sa che non è semplice per nessuno fare i conti con i propri detrattori. Lei fa un lavoro così esposto, quello dell’artista, e in più lo fa in tutto l’opposto della “comfort zone”: lo fa in strada, dove si è maggiormente soggetti a rifiuti espliciti. La rimozione o la deturpazione di qualcosa che ha donato senza chiedere nulla in cambio. Come la vive? La vede un contestare lei, il personaggio ritratto o entrambi?
«Ogni artista la vive in maniera diversa, l’ho imparato conoscendo e parlando con molti di loro nel tempo. Io non ho particolari remore a riconoscere che quello che faccio è molto effimero, anche per scelta mia uso colle naturali che hanno già di per sé una durata limitata nel tempo. Penso che nel momento in cui io metto il mio lavoro in strada è come se non fosse più mio, ne prendo le distanze. Per me il momento importante è tutto ciò che c’è prima: l’idea che nasce, l’incontro con la persona, il lavorarci per ore. È il dipingere che per me è un’ancora, come mi piaceva dire quando ero in terapia: mi permette di sentire le onde del mare, ma non mi fa andare al largo, mi fa restare dove sono. Questo mi aiuta molto perché sono una persona che pensa tantissimo e il mio pensiero rischia di perdersi. Nel momento in cui finisco di dipingere si esaurisce questo processo e ne inizia un altro, che servirà a qualcun altro. Avere dei feedback positivi – persone che mi scrivono per raccontarmi di essersi ritrovati nel ritratto – mi fa un sacco piacere ed è il motivo per cui continuo a farlo. Se anche solo una persona si ferma meravigliata, beh quello è il goal. La critica spesso la ignoro, non mi turba più di tanto. Quando fai street art ti stai appropriando di uno spazio pubblico con la forza e quindi come io mi prendo il diritto – o meglio la libertà – di poterlo fare, chiunque ha la libertà di poterlo criticare. Io cerco sempre di spiegare a chi mi scrive la mia etica – ad esempio la scelta di intervenire su muri che non sono mai puliti ma portano già interventi precedenti, ma se non capiscono va bene lo stesso».
Quali sono le principali caratteristiche che la colpiscono nei soggetti che ritrae?
«Quello che mi interessa delle persone che ritraggo sono le ombre e le sfumature che abbiamo dentro. Le difficoltà che viviamo, che nascondiamo, ma che ci troviamo comunque ad affrontare. Questa è stata la scintilla iniziale di tutto il percorso che sto facendo in strada. A me piace portare in strada un po’ di questa oscurità, di questo dolore. Ma non è solo esaltazione del dolore. Il mio intento principale è far si che chi si trova davanti al ritratto si possa riconoscere in quello sguardo e in quella frase. Le strade di Bologna sono sempre così caotiche e affollate, tutti giriamo con i nostri sorrisi e portiamo dietro i nostri problemi e quello sguardo familiare sul muro può farci sentire meno soli. Delle persone che scelgo non voglio conoscere la vita, mi interessa quel particolare che io colgo. Altre volte capita che parta da un mio pensiero e cerchi di coinvolgere altre persone a interpretare la mia sensazione. Proprio perché si tratta di persone reali, anche in questi casi voglio che esca anche qualcosa di loro, non è solo un parlare dei miei problemi o di come io vedo loro. A chi si presta a essere ritratto faccio sempre 4 o 5 bozze di pose che io mi immagino per interpretare un pensiero che sarà il fulcro e chiedo sempre di sceglierne una e farsi le foto, in modo che si sentano a proprio agio nel ritrarsi e soprattutto senza il mio intervento. Io ho fatto anche il fotografo nella vita e il mio intervento darebbe un po’ troppo la mia visione. Ci sarebbe troppo di me».

Concludo con la domanda di rito. Quali sono i suoi progetti futuri?
«Questa è veramente la più difficile! Non lo so perché vivo molto alla giornata. Diciamo che nei miei lavori c’è sempre del testo. Nell’ultimo anno sono stato abbastanza in crisi se toglierlo oppure no: ogni tanto sento che potrebbe essere di troppo o meglio vorrei poter comunicare di più comunicando di meno, in un certo senso, usando meno parole. Quindi una cosa che sto pensando è di scrivere. Vorrei scrivere un qualcosa e usare il disegno sui muri. Potrebbe nascere una sorta di libro illustrato in strada…non lo so…»
L’articolo è stato scritto per la rivista di CUbo – Circolo Università di Bologna, diretta da Massimiliano Cordeddu. In copertina: Chrprn e un suo lavoro nel 2019 (photo credits: Christian Peirano)
Indubbiamente bravo, una bella mano e dei bei lavori, non certo come quegli imbrattamuri che vanno in giro a riempire la città di scritte e tag. Resta comunque il fatto che se vuol realizzare un lavoro sul muro di qualcuno, deve prima avere l’assenso del proprietario di quel muro, altrimenti per bravo che sia l’autore e per bello che sia il lavoro, resta sempre un imbrattamuri che in maniera arrogante calpesta l’altrui diritto di gestire il proprio muro come meglio si vuole.