Lettera 29 – Ai partigiani

Dopo l’iniziativa “La Libertà è difficile e fa soffrire”, ospitata dalle nostre pagine in occasione della Festa della Liberazione, pubblichiamo le lettere inviateci dai lettori che hanno deciso di aderire all’appello lanciato nelle settimane scorse dalla presidente provinciale dell’Anpi Anna Cocchi e da Mattia Fontanella

di Franco Grillini, presidente onorario Arcigay


Mi chiamo Franco perché mio zio Franco saltò sopra una bomba della seconda guerra mondiale. La povertà spingeva al tempo tanti giovani a fare i cercatori di metallo, maneggiando con molto rischio proiettili e bombe inesplose.

Allora si dava il nome ai neonati dei parenti deceduti. Io vengo da una famiglia dove il nonno Emilio Grillini, di fede socialista, rifiutò la tessera del fascio e perse il posto di lavoro alle Poste, scelta non priva di conseguenze dato che aveva 5 figli. Si trasferirono allora alla Villa di Cassano nel Comune di Monterenzio, dove si misero a fare i contadini mezzadri. E fu proprio in questa azienda agricola che, fornendo di vettovaglie i partigiani (i quali rilasciavano “buoni” come ricevuta che vennero regolarmente saldati a fine guerra) furono notati dai tedeschi, che decisero per questo di comminare la condanna a morte del nonno Emilio e del primogenito Renato. La condanna non venne mai eseguita, grazie all’intercessione del parroco di San Benedetto del Querceto e al fatto che si era ormai alle soglie del 24 aprile del ’45.

Proprio Renato fu protagonista, un anno prima, della clamorosa fuga dal carcere di San Giovanni in Monte organizzata dai Gap. Vi erano detenuti in gran parte i renitenti alla leva della Repubblica fantoccio di Salò, e Renato era uno di questi. Un altro fratello di Renato – nel frattempo, la famiglia aveva aderito al Partito Comunista (mio padre compreso) – mi ha sempre favoleggiato dei depositi di armi che i partigiani avrebbero nascosto. E io lo prendevo un po’ in giro dicendo che non ce ne sarebbe stato più bisogno e che comunque, col passare degli anni, si sarebbero arrugginite. E lui mi rispondeva che ero un uomo di poca fede. Se ne è andato nell’autunno scorso, a 90 anni, con il suo segreto.

In un altro luogo e in un altro podere, quello dei familiari di mia madre Mafalda, una sera arrivò un sergente tedesco armato e ubriaco – evidentemente violando la disciplina del suo reparto – intenzionato a fare violenza alle giovani sorelle di mamma. I parenti presero il fucile da caccia e lo colpirono, ma nessuno di noi sa dove è stato sepolto e i protagonisti ci hanno lasciato ormai tutti. Ancora nel dopoguerra, vennero i parenti di questo sergente per cercare i suoi resti ma senza successo.

Quante storie di questo tipo sono successe allora e non sono mai state raccontate? Succedevano sullo sfondo della guerra e della vostra indispensabile lotta contro l’invasore. Lotta sulla quale si è costruita la nostra moderna Costituzione e la nostra democrazia.

Allora come adesso, la guerra colpiva direttamente anche i civili. I due poderi dei miei familiari erano nell’occhio del ciclone: di qua i tedeschi, di là gli americani. Sia i tedeschi che gli americani si erano accampati in periodi diversi nel prato dell’azienda agricola di mia madre. Mio padre si ricordava ancora alcune imprecazioni in inglese, ripetute in continuazione dai militari Usa. E possiamo immaginarci quali. Mia madre ha sempre detto che gli americani non erano molto preparati alla guerra come i tedeschi, ma vincevano a causa del loro numero soverchiate. Mafalda e le sue sorelle rimanevano impressionate dalla stazza imponente dei militari Usa, dalla dovizia di cibo che regalavano alla popolazione e soprattutto dai militari di colore che non avevano mai visto. Le grandi quantità di cioccolato (che in Italia non c’era da anni a causa delle sanzioni della Società delle Nazioni) erano un toccasana per la popolazione stremata dalla guerra e dalla fame, soprattutto per i bambini.

Nei miei ricordi d’infanzia, ancora alla fine degli anni ’50, c’è un aereo spia americano facilmente riconoscibile per la coda quadrata. Lo chiamavamo “Pippo” e quando passava a bassa quota, i bambini lo salutavano felici.

È con questa felicità infantile, frutto della nuova democrazia alla quale avete dedicato la vita, che non posso non ringraziarvi e abbracciarvi tutti per la libertà che ci avete donato.


Un pensiero riguardo “Lettera 29 – Ai partigiani

  1. Complimenti a Franco Grillini per questo bellisimo racconto di memorie, molte simili a quelle che mi raccontava mio padre, partigiano della Brigata Stella Rossa di Marzabotto dal primo atto costitutivo in casa di mio nonno. I giovani dovrebbero leggere più articoli come questo per sapere di questi fatti molto distanti nel tempo per loro, ma che oggi però potrebbero ripetersi, anche se in modi diversi. Le guerre e le lotte purtroppo non fiiscono mai.

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