I figli degli altri

I bambini avrebbero bisogno di più considerazione sociale e preoccupazione istituzionale. Quelle dovute a ogni cittadino, anche se ancora non vota. Perché i figli non sono appendici dei genitori, ma persone. Un patrimonio di tutti, anche di chi sceglie, legittimamente, di non averne oppure, purtroppo, non ci riesce

di Nicola Longhi, genitore


Nella mia inquietudine di genitore mi capita di partecipare a formazioni, incontri e occasioni pubbliche. In molte di queste si fa spesso riferimento alla comunità educante, all’alleanza educativa e si attinge perfino alla saggezza africana con frasi strappa applauso (e lacrimuccia) del tipo: «Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio». Io però tutta questa comunità educante faccio fatica a intravederla, dell’alleanza educativa manco l’ombra, figuriamoci poi il villaggio, inteso sia in termini di infrastrutture, sia in termini di relazioni.

Sarà un’altra estate enorme, tredici settimane intere senza scuola. Più altre due mezze settimane, non coperte da centri estivi, perché la burocrazia non fa sconti e se negli uffici della Regione decidono che la scuola deve cominciare il 15 settembre, anche se è venerdì, chi siamo noi per opporci? Un’estate che comincia nella maniera peggiore, preceduta da un’alluvione terribile che ha fatto giustamente chiudere le scuole, vista la gravità della situazione. Eppure, nel primo giorno di chiusura delle scuole chiunque di noi avrebbe potuto andare a nuotare in un impianto pubblico, ad esempio, come se la pandemia non ci avesse insegnato che è ora di finirla di trattare la scuola come l’ultima ruota del carro. La prima a chiudere e l’ultima a riaprire.

Se poi consideriamo che il dibattito pubblico ha preferito polarizzarsi sulle responsabilità di Springsteen nel fare il suo mestiere, piuttosto che cercare una soluzione che risolvesse il problema di quei genitori che dovevano lavorare ma avevano i bambini a casa, beh, allora si comprendono chiaramente le priorità. «Ma il figlio l’hai fatto tu, no? E quindi cosa pretendi?» mi sento rispondere dai più sinceri, quelli che lo pensano e lo dicono, che sono una minoranza rispetto a quelli che lo pensano e se lo tengono per loro. Ecco, il villaggio è questo.

Ma dove lo abbiamo distrutto il villaggio e perché? E soprattutto, come facciamo a ricostruirlo? Naturalmente non ho risposte e certezze, posso raccontare quello che vedo e provare a buttare lì quello che invece mi piacerebbe vedere.

Vorrei che avessimo verso i bambini considerazione architettonica, urbanistica e preoccupazione istituzionale. Quelle dovute a ogni cittadino, anche se ancora non vota. I figli non sono appendici dei genitori, sono persone e alle persone non basta dire: «Non preoccuparti, adesso passa». Bisogna dire le cose come stanno.

Vorrei non assistere più a dibattiti che contrappongono assistenza ed educazione, come se non potessero stare insieme. Dibattiti inevitabilmente forieri di polarizzazioni e discorsi come: «I genitori hanno bisogno solo di parcheggiare i bambini a scuola». Perché così si alimenta solo la dimensione della colpa, come se i genitori non ne avessero abbastanza.

Vedo una Repubblica fondata sui nonni, per quei genitori che ce li hanno attivi. Gli altri, quelli che non li hanno più o li devono assistere, fanno vita grama. Ma anche lì non mi sembra che sia tutto oro, con anziani costretti a vivere ampiamente sopra ritmo e bambini che stanno con persone che li amano, ma che non dovrebbero essere quelle con le quali passare giornate intere. In parte non possiamo farne a meno, ma in parte è anche colpa nostra, in fondo il pregiudizio che i nonni siano comunque meglio dell’asilo ce lo abbiamo in molti. Ma è, appunto, un pregiudizio.

Il rapporto con l’infanzia non è naturale e senza sforzo, anzi è faticosissimo. Infatti viviamo l’arrivo di un bambino come il sovvertimento dell’ordine costituito, non più come una naturale spinta al futuro. Una cosa in cui il mondo esterno alla famiglia non entra, a parte la scuola, sulla quale però continuiamo a razionalizzare, che è il modo dei nostri tempi per dire che tagliamo. Quindi i genitori rimangono soli e i figli sono completamente a carico loro.

Una volta i figli degli altri erano un po’ tuoi, te ne occupavi e interessavi al di fuori dell’utilità per i tuoi figli. Ora i figli degli altri vanno bene per non far stare solo il tuo o se lo invitano alle feste. Se invece c’è un problema, se rappresentano difficoltà, ostacoli, se rallentano l’apprendimento della classe, vanno rimossi, allontanati.

Invece dovremmo amare anche i figli degli altri, aiuterebbe i nostri figli e noi, tutti. Anche chi i figli non li ha. Perché i nostri figli sono anche loro.

Naturalmente ognuno di noi deve essere libero di investire su una vacanza alle Maldive, sull’avere un gatto o un cane, oppure su un figlio. Ma non è che battersi per la libertà di scelta può obnubilarci a tal punto da non capire che le tre opzioni hanno pesi diversi socialmente. La vacanza fa bene a chi la fa, l’animale dà tanto al nucleo familiare in cui vive, ma il figlio è un vantaggio per la collettività. Un figlio è un patrimonio di tutti, anche di chi sceglie, legittimamente, di non averne oppure, purtroppo, non ci riesce.

Solo se partiamo da questi presupposti le responsabilità diventano condivise, le famiglie non sono più sole e chi amministra deve prendersi la responsabilità di includere anche i bambini e le bambine nelle scelte per la città, per la regione, per lo Stato. E i discorsi sul declino demografico non rimangono solo vuota teoria. Abbiamo molti compiti per le vacanze.


Un pensiero riguardo “I figli degli altri

  1. Tutto vero e aggiungerei la strana frequentissima abitudine di troppi genitori che insegnano ai figli ad essere ”furbi”, egoisti, a scansare il sacrificio, a fregare il prossimo. Senza principi e senza valori è difficile crescere e diventare adulti responsabili.

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