Tra la via Emilia e il “Uest”

I quartieri urbani si svuotano, eppure basta allungare il passo verso i primi paesi confinanti  sulla via Emilia per scoprire che i loro abitanti il mare lo immaginano oltre la fermata del treno. Escono così di casa in infradito e canottiera. In questa nudità si raccoglie l’essenza della loro estate e la vita di tutti i giorni prosegue virgineamente

di Francesca Serrao, operatrice museale


Agosto. Il deserto cittadino è il custode dei cantieri. Le asfaltatrici conquistano il centro dello slargo di piazza Volta, dando del tu all’edicola di fronte come alieni dell’ultramondo. Sull’asfalto fresco di via Turati i passi sprofondano e il calore catramoso si emancipa da terra come condensa sull’orizzonte urbano. La vita si restringe nel respiro dell’unico passante che, mentalmente, sfugge alla maleodorante polvere con la pressione inutile dei polpastrelli sul naso.

Le voci nelle case sono una crepa nella compattezza del vuoto delle strade. Un «buon compleanno!!» gridato tra le mura domestiche apre uno squarcio di gioia, che rimbalza tra le roventi facciate, rompendo il  lungo sonno diurno delle vie, che regna come un incantesimo a tempo. Esso accoglie la speranza di un cambiamento, nei piccoli gesti di manutenzione dell’ordinario. Intanto la vita delle città si trasferisce in altri luoghi. I giorni avanzano in un processo di sottrazione urbana sempre più impercettibile.

La progressiva estinzione dei passanti dona luce agli stanti, coloro per i quali la strada è la casa: circondati da un’aureola di “centesimini”, che neanche loro più raccolgono. All’angolo di piazza Malpighi uno di loro grida «Vai piano! Vai piano!» all’unica lavoratrice rimasta a calpestare la scivolosa pavimentazione. La vede da più di un anno sfrecciare verso la stazione dei treni come un monopattino, attraverso le stagioni, alla stessa ora.

I quartieri urbani si svuotano, eppure basta allungare il passo verso i primi paesi confinanti sulla via Emilia per scoprire che i loro abitanti il mare lo immaginano oltre la fermata del treno. Escono così di casa in infradito e canottiera. In questa nudità si raccoglie l’essenza della loro estate e la vita di tutti i giorni prosegue virgineamente.

Al mercato del martedì di un paese di confine, le voci dei passanti attraversano il sipario delle tende al vento, che penzolano da sempre, sorrette dallo spago del banchetto di fronte alla porta di legno del Museo Civico nell’esatto centro del paese. Intanto la bionda venditrice ambulante con la ricrescita scura mantiene un silente dialogo con l’operatore museale, in perenne giacca, di là dalla porta interna a vetri. Attraverso sguardi casuali si raccontano la solitudine delle ore che trapassano il mattino in un crescendo di afa.

In queste terre liminari si assiste a un ribaltamento dell’incantesimo. Se al di qua delle mura tutto si ferma, al di là di esse tutto si preserva come un lievito madre sotto una campana di vetro, mutando nei soli dettagli.

Arriva la sera sulla via Emilia, al di là delle mura la notte cala silenziosamente e i paesi si illuminano grazie alle feste popolari, sparse come lucciole nel buio. Alcune tentano di incorporare nei loro riti esperimenti culturali nei musei di provincia.

Le strade dei quartieri bolognesi restano silenti, mentre Piazza Maggiore si trasforma nel Cinema sotto le stelle. Sul non più rovente crescentone ognuno sceglie la sua posizione. C’è chi si siede o accavalla le gambe, chi si sdraia come fosse su un materassino in mare, in ammirazione di uno splendido tramonto. Lo schermo domina dall’alto l’immaginario dell’estate di chi resta e degli avventori vacanzieri.


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