Non è la hit della Carrà, talmente popolare in Spagna da diventare colonna sonora della campagna elettorale del leader socialista Pedro Sánchez, né il romanzo d’esordio di Ernest Hemingway, incentrato sulle sue scorribande iberiche quando era inviato del “Toronto Star” in Europa. Bensì la Ford indemoniata che mi è sfrecciata accanto sulla gran vìa Don Diego López de Haro, piena zona 30 di Bilbao. La prova (in un viaggio che me ne ha date tante) che tutto il mondo è paese e che non esistono isole felici… Forse
di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB
Quando da Avenida Sabino Arana si svolta a destra sulla gran vìa Don Diego López de Haro, passando accanto allo Stadio San Mamés di Bilbao (“La Catedral”, per i bilbaìnos) e alla gigantesca statua del Sagrado Corazón de Jesús, anche l’osservatore più distratto non può ignorare l’idea che l’identità basca – calcistica e non – abbia a che fare con la mistica religiosa molto più che con la politica.
Idea confermata dalla storia, se è vero com’è vero che la Ikurriña, la bandiera basca disegnata proprio da Sabino Arana e dal fratello Luìs nel 1894, tornò a sventolare liberamente in pubblico soltanto il 5 dicembre 1976, circa un anno dopo la morte del generalísimo Francisco Franco, nel cerchio di centrocampo di un sorprendentemente silenzioso Estadio de Atocha di San Sebastiàn, prima di un derby tra la locale Real Sociedad e l’Athletic Bilbao di José Ángel Iribar, attivista politico e mitologico portiere della Spagna campione d’Europa nel 1964.
Un silenzio “domenicale” che, con parecchia presunzione, immagino simile a quello con cui Bilbao ha accolto me un pomeriggio d’agosto, appena sceso dall’auto in piena zona 30 della città. Eppure decisamente meno nobile perché, per dirla tutta, la siesta è la siesta, anche durante la Semana Grande di Bilbao.
A Bilbao, come nel resto del País Vasco, c’ero finito per realizzare un sogno da inutile liceale, nato scorrendo le pagine del romanzo d’esordio di Ernest Hemingway. Che negli anni ’20, quando era inviato in Europa per lo Star di Toronto – prima città del Canada e d’Abruzzo – amava trascorrere da quelle parti le vacanze estive, circondato da artisti, toreri e fiumi di vino.
Con l’immaturità dei trent’anni, e viste le schermaglie di casa nostra, avevo poi deciso di aggiungere un’altra motivazione, che potrà sembrare strana a voi ma non al figlio di un ingegnere: verificare, invece di limitarsi a credere, che una delle città “sante” per tutti gli adepti dei 30 all’ora fosse, effettivamente, in una condizione migliore rispetto alla nostra.
Ebbene, se la Semana Grande si è confermata un baccanale che invade per giorni e notti tutto il Casco Viejo – chissà cosa ne penserebbero gli inquisitori della movida bolognese – la tranquillità e il silenzio dei 30 all’ora mi sono stati strappati via da una Fiesta, che non è la hit della Raffaella nazionale – lei sì tanto popolare in Spagna da diventare persino la colonna sonora del candidato socialista Pedro Sánchez alle ultime elezioni – ma una Ford incurante dei limiti, che mi è sfrecciata accanto mentre camminavo verso le meraviglie del Guggenheim.
Un’eccezione non del tutto eccezionale, come avrei avuto modo di verificare da lì in avanti, ovunque e per tutto il viaggio. Perché esattamente come tra fantasia e realtà, la differenza tra teoria e pratica la fanno le persone. E le persone, in Italia come in Spagna o in altri luoghi, se possono eludere una regola non si fanno pregare due volte.
Tra autovelox (pochi) e infrazioni (molte), il pensiero che mancasse cultura della lentezza prima ancora che norme per tutelarla si è fatto dunque strada giorno dopo giorno. E con lui, avanzando verso la Galizia, la consapevolezza che una legge nazionale sulle Città 30 – come quella già approvata in Spagna e quella appena presentata da Andrea Colombo in Italia – sia soltanto un primo passo verso qualcosa che, all’orizzonte, ancora non si vede.
Se però lo passi, quell’orizzonte, e attraversando le nieblas de Asturias che dal mare scalano le colline arrivi fino alla “fine della terra”, lì dove muore il Sole, forse qualcosa che stupisca ancora si può trovare. Vale per i sogni, come per la realtà.
Vale anche per Pontevedra, piccola città sull’Oceano al confine col Portogallo, e per il suo alcalde Miguel Anxo Fernández Lores, sindaco dal 1999. Il centro storico, da allora, è stato progressivamente interdetto alle macchine. E oggi, tra molta gioia e qualche mugugno, è una grande area pedonale: perfettamente vivibile, estremamente godibile.
Sul Camino de Santiago, va da sé, un piccolo miracolo come questo non fa notizia. Ma può essere d’ispirazione per chi, dalle nostre parti, ancora lotta contro vecchie abitudini, insuperabili pregiudizi e l’inconfessabile timore che, se non li asseconderai, alla prossima elezione i cittadini ti puniranno. Perché al di là dei dubbi e delle certezze, dei dati statistici e delle fake news, l’unico modo per credere davvero – come suggerisce anche la bella testimonianza di Luca Valdiserri (qui) – è osare, tanto a Bologna quanto alla fine del mondo. Vale per i sogni, come per la realtà.
Del resto, cosa abbiamo veramente da perdere? Qualunque sia il risultato, almeno avremo tentato. E il giorno dopo, anche se un po’ più veloce di 30 km all’ora, il Sole sorgerà. Ancora.
In copertina: una piazza pedonale a Pontevedra, Galizia