Intervista a Daria Bonfietti, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della strage che da quarantatré anni lottano affinché sia fatta completa chiarezza sull’abbattimento del Dc-9 Itavia
di Eugenio Alzetta, giornalista
«Vi sembra pensabile che un Paese civile e democratico accetti un fatto grave come quello di Ustica?» chiede Daria Bonfietti. Nata a Mantova nel 1945, laureata in Scienze politiche ed ex docente all’istituto Aldini Valeriani, Bonfietti si è dedicata alla politica venendo eletta in Parlamento nelle fila del Pds e poi dei Ds. Presidente dell’associazione dei parenti delle vittime di Ustica da lei fondata nel 1988, spera ancora nella possibilità di scoprire i responsabili dell’abbattimento del Dc9 Itavia, una tragedia che ha causato la morte di 81 persone, tra cui il fratello Alberto. Le recenti dichiarazioni dell’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato sulla responsabilità della Francia le danno l’occasione di chiedere all’attuale governo di pretendere una vera collaborazione da parte degli altri Paesi coinvolti nella vicenda.
In una sua lettera a Repubblica ha ringraziato l’ex premier Amato per quanto ha detto sulla responsabilità della Francia. Perché è così importante che sia intervenuto in questo momento?
«Perché è un appello alla politica e al governo italiano per fare chiarezza sulla vicenda di Ustica, un appello che condivido pienamente. Occorre che, attraverso la diplomazia e ogni altro mezzo, ci sia un rapporto di vera collaborazione con gli altri Paesi amici e alleati a cominciare dalla Francia, dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra e dal Belgio perché, ricordiamolo, quella sera nei cieli di Ustica erano in volo aerei militari francesi, americani, inglesi e uno belga».
Alla luce di queste dichiarazioni, crede che la tensione tra Italia e Francia dall’inizio del Governo Meloni possa ostacolare una collaborazione tra i due Paesi?
«No, anzi, io spero l’esatto contrario. Mi auguro che il presidente francese Macron collabori. Ciò dipenderà ovviamente anche dal tono con cui il nostro governo gli chiederà di dare una mano. Lo ripeto, adesso deve intervenire la politica, a cominciare dal nostro presidente del Consiglio».
Anche lei è convinta della pista francese?
«Non ho titolo per essere convinta di questa o quella pista. Cerchiamo di distinguere le opinioni delle varie persone. Amato parla da ex premier. Ci sono sicuramente elementi che sono stati raccolti e verificati dai magistrati. Posso dire che sposerò qualsiasi responsabilità, basta che sia acclarata».
Dopo 43 anni di misteri e menzogne crede ancora alla possibilità di arrivare un giorno alla verità definitiva?
«Non parliamo più di misteri. Nel 1999, al termine delle indagini, il giudice istruttore Rosario Priore ha detto che effettivamente l’aereo è stato abbattuto in un episodio di guerra aerea. Che mistero è? Diversamente da quanto hanno sostenuto per anni i vertici dell’Aeronautica italiana, non si è affatto trattato di un cedimento strutturale, né dell’esplosione di una bomba a bordo dell’aereo. È troppo comodo parlare di misteri o di segreti.
Faccio notare che politici e militari hanno iniziato a parlare dell’ipotesi della bomba non il giorno dopo il fatto, bensì quando ci sono state le prime incriminazioni e questa è un’assurdità. Ciò che ancora manca è un pezzo di verità. Altrimenti si rischia di restare in un limbo dove la maggioranza degli italiani sente questo linguaggio e non fa le battaglie. Ma la risposta è sì: credo e soprattutto auspico che si possa arrivare alla verità»
Non si può parlare di misteri ma un pezzo di verità ancora non lo conosciamo
«Infatti. Non sappiamo ancora chi è stato. Ma per arrivare a capire cosa è successo quanto ci è voluto? Cosa era stato fatto da magistrati e politici dal 1980 al 1985? Niente! Stiamo parlando di un aereo di linea che è stato abbattuto! Ma vi sembra normale? E vi sembra accettabile che nella storia del nostro Paese ci siano dei fatti come il suicidio di Mario Dettori, operatore della stazione radar di Poggio Ballone, o “l’incidente” di Ramstein del 1988 in cui hanno perso la vita oltre sessanta persone tra cui le frecce tricolori Ivo Nutarelli e Mario Naldini, gli stessi piloti che la sera del 27 giugno 1980 erano in volo e hanno dato l’allarme per la presenza di altri aerei? Suvvia, ne va della nostra dignità nazionale, oltre che della stabilità dei rapporti tra i Paesi».
Tutte queste menzogne e “coincidenze” fanno parte del “muro di gomma” che lei ha combattuto sin dall’inizio. Perché quel silenzio e quell’omertà? Perché allora chi sapeva ha preferito tacere o mentire?
Dobbiamo anche capire l’indicibilità di quell’evento: se, come si sostiene, fosse stato abbattuto Gheddafi, il vero bersaglio di quello scontro aereo, secondo voi il Paese responsabile lo avrebbe rivendicato in quel contesto di guerra fredda con l’Urss alleata della Libia e con la posizione ambigua dell’Italia, che aveva “la moglie americana e l’amante libica”? Assolutamente no».
Ci sono politici che negli anni hanno dato un contributo alla ricerca della verità?
«Il primo che ha dato un contributo significativo nell’86 è stato Amato che, nel ruolo di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, si è attivato per recuperare il relitto e rendere possibile la riapertura delle indagini. Quello è stato il primo decisivo passo in avanti. Negli anni Novanta, sotto la presidenza dello stesso Amato, l’allora Ministro della Difesa Salvo Andò si costituì parte civile nei confronti dei militari che in quel momento il giudice Rosario Priore stava rinviando a giudizio per reati come alto tradimento e disfacimento di prove (anche se poi in sede penale non ci furono condanne, come nel caso dei generali Bartolucci e Ferri che furono assolti anche in cassazione, ndr). Vorrei infine ricordare l’impegno del governo Prodi che fu investito dal magistrato e da noi dell’associazione dell’incarico di chiedere alla Nato e, in particolare, al segretario generale Javier Solana, la decrittazione di tabulati radar che i generali italiani avevano fatto passare come “tabulati coperti da segreto perché riguardanti un’operazione della Nato. Alla fine la Nato disse chiaramente che non si trattava di nessuna operazione Nato e così i tabulati furono decrittati».
E quelli che hanno ostacolato le indagini?
«Io non parlerei di singoli politici. Ci sono state forze politiche molto vicine agli ambienti militari che hanno contrastato maggiormente la nostra ricerca della verità. Alcuni hanno poi sostenuto la tesi dell’abbattimento, ma per un mero calcolo politico. Per esempio un articolo firmato dall’Msi e dal Fuan (il Fronte universitario di azione nazionale, ndr) lo sosteneva, ma il loro vero obiettivo era attaccare la Nato. Ancora oggi purtroppo ci sono persone che insistono con la tesi della bomba. Uno dei politici che più difendono questa versione dei fatti è Giovanardi. Un altro è il generale Tricarico».
Tra tutte le ipotesi fatte finora (il missile, la bomba, la quasi-col- lisione), quali sono i dati certi emersi dalle sentenze?
«Il dato certo è che quella sera c’è stato un episodio di guerra aerea in cui il Dc9 è stato abbattuto. I periti poi hanno rilevato dei danni che di fatto supportano la tesi dell’onda d’urto provocata dai missili e dai proiettili scagliati dagli aerei mili- tari presenti: il piegamento dell’ala sinistra e la rottura del fianco destro».
In questi 43 anni quali sono stati i passi avanti più importanti?
«Come ho detto, il primo passo decisivo è stato il recupero del relitto dell’aereo. Vorrei ricordare nell’88 Telefono Giallo di Corrado Augias, con la presenza di Amato e Andrea Purgatori, il cui lavoro è stato fondamentale per scoprire la verità in un momento in cui nessuno parlava e del quale, da quando è morto quest’estate, sento una grande mancanza. Nello stesso anno ho fondato l’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica».
Ci sono stati altri momenti o episodi fondamentali per la ricerca della verità?
«Come ulteriore passo in avanti, vorrei ricordare nel ’90 un’accelerazione delle indagini grazie al significativo contributo del giudice Priore. Un altro contributo è stato dato anche dal Comitato per la verità su Ustica (chiamato “il comitato dei Sette Saggi”), composto da sette tra le più eminenti personalità di quell’epoca: Francesco Paolo Bonifacio (il presidente), Stefano Rodotà, Antonio Giolitti, Pietro Ingrao, Pietro Scoppola, Franco Ferrarotti e Adriano Ossicini».
E quali sono invece gli ostacoli che non sono mai stati rimossi?
«Direi il silenzio e la mai completa volontà politica di fare luce che ci sono stati in questi 43 anni».
Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della strage del 2 agosto 1980, ha detto di nutrire poca fiducia verso questo governo perché reputa che le sue prime decisioni vadano nella direzione contraria alla ricerca della verità. Lei ha fiducia?
«Noi facciamo parte di un comitato e devo dire che finora non c’è stato molto attivismo da parte della politica nel convocarci. Ritengo profondamente offensivo l’aver aggiunto nel comitato una parente delle vittime di Ustica, Giuliana Cavazza, che è una sostenitrice convinta della tesi della bomba! Inoltre ho la sensazione che una parte della classe politica stia cercando di riscrivere la storia, il che non è affatto un approccio positivo».
Qual è stato il momento in cui ha più creduto nella possibilità di giungere alla verità?
«Sicuramente dopo le dichiarazioni di Cossiga, allora Presidente della Repubblica, il quale disse che l’aereo era stato abbattuto per errore da un missile scagliato da un aereo francese. L’obiettivo della Francia era colpire l’aereo sul quale stava viaggiando Gheddafi, che riuscì a salvarsi perché avvertito in tempo dal Sismi».
Che ricordo ha di Christian Boltanski, l’artista che ha realizzato l’installazione del Museo della Memoria di Ustica?
«Quella per me è stata una grande perdita. Una morte improvvisa, avvenuta nel 2021. Boltanski era un artista che ci è sempre stato vicino e non lo ricordiamo solo per quella bellissima installazione con le voci, i sussurri e le 81 luci che si accendono e si spengono lentamente. Lui è sempre stato al nostro fianco con tante altre iniziative, come le installazioni che ha fatto al MAMbo e all’Arena del Sole».
L’Associazione che lei presiede è nata a Bologna nel 1988. Quanto è stato determinante il suo ruolo nella sua fondazione?
«Devo precisare che prima dell’85 noi parenti delle vittime non ci eravamo mai visti. Tutto ha avuto inizio nell’87, con il recupero del relitto del Dc9, quando ho ottenuto una lista di nomi. È stato allora che ho contattato i famigliari delle vittime. La prima assemblea ha avuto luogo il 20 maggio 1988. È così che è nata l’associazione».
Si chiede mai cosa deve aver pensato suo fratello Alberto un attimo prima di morire?
«Le frasi che rappresentano quello che poteva essere l’ultimo pensiero delle vittime le ha inserite Christian Boltanski nell’installazione del Museo della Memoria. Nei primi anni ho vissuto una fase di profondo dolore e di grande disperazione. Successivamente, soprattutto dopo aver saputo del recupero della scatola nera e delle ultime parole del pilota del Dc9 (“Gua…”), mi sono abituata a immaginare che ci sia stata una deflagrazione, una questione di attimi, di secondi. In ogni caso, non voglio neanche pensarci».
L’articolo è stato realizzato per Quindici (qui), il quindicinale del Master in Giornalismo dell’Università di Bologna. (Photo credits: InCronaca)