Romano Prodi, tra Bologna e il Mondo

«L’Europa superi al più presto il voto all’unanimità, o non riuscirà mai a farsi sentire». Romano Prodi affronta con la nostra redazione i grandi nodi del momento: la guerra in Israele e in Ucraina, i rischi della manovra del governo, le difficoltà del Pd («Serve un linguaggio più semplice e rinsaldare il rapporto con la base»). Il professore è un personaggio capitale della Seconda Repubblica, ma è anche bolognese d’adozione e della città parla con lo sguardo del cittadino. Bologna, osserva, «ha conservato un suo spirito», la giunta si è mossa bene sulle periferie, ma i 30 all’ora vanno fatti con buon senso. Tra i problemi, le piste ciclabili, i dehors, la casa, l’aeroporto e la stazione «che non hanno più un posto in cui sedersi». Infine: «Per allargare la fruizione del centro, occorre scoprire i canali».

di Chiara Scipiotti, giornalista


Lei è un grande appassionato di bicicletta. Bologna è una città a misura di ciclista?

«No,  perché nelle città antiche la convivenza tra automobili e biciclette è difficilissima. Le piste ciclabili ricavate vicino alle automobili in sosta sono più pericolose delle “non piste”, perché basta che qualcuno apra lo sportello della macchina per fare un incidente. Fuori dal centro, invece, stanno nascendo piste ciclabili interessanti, sia verso la collina che verso la pianura».

Il limite dei 30 all’ora è un’iniziativa efficace per migliorare la convivenza tra bici e auto?

 «Se guidata dal buonsenso, sì, ma va modulata col realismo. Dentro le mura sono convinto che il limite sia necessario, perché Bologna è una città medievale. Fuori, invece, il problema è appunto distinguere dove sia realistico imporre il limite e farlo rispettare».

Una cosa che, da cittadino, ha apprezzato dell’amministrazione Lepore e una che non le è piaciuta?

«Mi è sembrato molto attento ai problemi della periferia. Naturalmente, però, c’è il problema della regolazione del  boom  turistico: non si può dover camminare in fila indiana nei portici (ride, ndr). E poi, io non sono contrario ai dehors, ma vanno regolati. Infine, in futuro bisognerebbe lavorare sulla rete urbana e allargare il centro di Bologna».

Come si allarga il centro della città?

«Bisogna estendere la zona in cui si passeggia: la scopertura dei canali aumenterebbe di un terzo o di un quarto la godibilità del centro, anche nell’ottica del turismo. Ma questo riguarda il futuro».

Parliamo allora un attimo del passato: com’è cambiata Bologna in questi anni, per come l’ha sempre vissuta?

«È cambiata come tutte le grandi città italiane, ma ha conservato un suo spirito bolognese. L’economia è andata avanti meglio della media nazionale, quantitativamente e qualitativamente. Non sono però stati risolti i problemi conseguenti, primo tra tutti l’emergenza abitativa. Serve anche una riorganizzazione dell’aeroporto e della stazione dell’alta velocità, entrambi luoghi dove non c’è più un posto in cui sedersi».

Secondo lei, l’emergenza abitativa dipende più dalla mancanza di case o dalla crescita del turismo?

«Entrambe le cose. Certamente, sugli studenti il turismo ha avuto un impatto importante, ma sull’assetto generale è una questione di mancanza di alloggi in affitto, o di case inadeguate. Voglio dire, con l’invecchiamento della popolazione che c’è, mezza periferia ha case di oltre tre piani senza ascensore».

Negli ultimi dieci anni il Pd si è spostato al centro perdendo elettori e  credibilità. Schlein sta cercando di riportarlo verso sinistra. Come si esce da questo stallo se le resistenze vengono da dentro al partito?

«Non è una questione di destra o sinistra. Come tutti i partiti, il vero problema è che anche il Pd ha perso il rapporto con l’elettorato. Anche se è rimasto l’unico a mantenere ancora forme democratiche.  Non ci sono più dibattiti: in quali luoghi si esprime una volontà politica, ormai? Le parrocchie non ci sono più, i luoghi di aggregazione non ci sono più. Bisogna portare davanti alla politica i temi caldi di cui si discute a cena».

Come si potrebbe fare?

«Mi piacerebbe che ogni settimana si mettessero insieme in Rete esperti, cittadini, iscritti e non iscritti a discutere di scuola, occupazione, salute, carovita, pace. Il segretario poi potrebbe riassumere la discussione in una città italiana simbolo di quel problema: la finanza a Milano, il volontariato a Padova… Si creerebbe il programma coinvolgendo migliaia e migliaia di persone. Poi, certo, un’alternativa di governo non la fa un solo partito e serve una coalizione. Ma intanto ci sarebbe un programma che parte dall’ascolto e dal dialogo con le persone».

È anche una questione di alleanze, quindi?

«Certo, sono indispensabili. Nella moderna democrazia, al di là dei governi presidenziali, non ci sono  più Paesi in cui non governi una coalizione. Persino in Germania è così: hanno fatto un programma di centinaia di pagine, e lo rispettano. Certo, è faticoso, ma le alleanze sono sempre faticose. Anzi, la democrazia è faticosa: anche per questo il fascino dell’autoritarismo conquista sempre più Paesi».

Perché il centrosinistra fatica tanto a mostrarsi unito e a costruire progetti in comune?

«Vorrei risponderle che è  perché i contenuti sono diversificati, ma non sarebbe vero. Le tensioni all’interno delle coalizioni sono solo per un quarto sui contenuti e per tre quarti sono causate da personalismi. Dalla nascita del Movimento Cinque Stelle, poi, è come se si fossero rotte quelle comuni tradizioni che favorivano le alleanze, anche quando c’erano diversità».

Secondo lei, quindi, è  più difficile fare alleanze oggi rispetto a vent’anni fa?

«No, è difficile fare alleanze, punto. Le alleanze che ho fatto io non erano facili, anzi! Potrei fare un master in Scienze delle coalizioni (ride,  ndr). L’ho chiesto, ma nessuno in università mi ha dato la cattedra».

Qual è la battaglia che la sinistra dovrebbe portare avanti per costruire un’alternativa alla destra di Giorgia Meloni?

«Sono soprattutto due, il salario minimo e la sanità. La battaglia per il salario minimo è  già in corso; d’altronde, com’è possibile pensare che si possa guadagnare meno di sei euro netti all’ora?».

Per quanto riguarda la sanità, invece?

 «Le risorse destinate alla sanità pubblica sono così ristrette che si sta creando sempre  più squilibrio verso il settore privato, mentre la salute dovrebbe essere un diritto universale. Poi, come punto aggiuntivo, c’è anche la necessità di riformare il fisco, senza inutili esenzioni e flat tax. Ma è difficile, perché i piccoli interessi compatti sono più forti dei sani interessi diffusi».

Il governo Meloni si presenta come capace di gestire la situazione economica senza sfasciare i conti. Eppure, in queste settimane, lo spread  ha superato quota 200 per poi scendere di nuovo, mentre la manovra  sarà finanziata col  deficit  e il  Pnrr  è stato rivisto “al ribasso”. Come valuta questa situazione?

«L’anno prossimo si prospetta complicato,  perché o dimostriamo una tendenza discendente nel rapporto debito-Pil, o il problema diventa indissolubile. Il mio governo era passato dal 117 al 101, quindi si può fare. Oggi siamo a 141 ma dobbiamo crescere e disciplinare il problema dell’evasione fiscale, che si sta aggravando. Anche qua prevalgono gli interessi di pochi sull’interesse di tutti. Il messaggio che è stato dato è: “Evadete, tanto noi chiudiamo un occhio”».

Per quanto riguarda i fondi per l’alluvione, ritiene che il governo abbia messo a regime la macchina dopo i ritardi iniziali? Oppure siamo ancora in ritardo?

«La macchina si mette in moto quando arrivano i soldi e, da quello che leggo, non sono ancora arrivati. La situazione è lasciata ancora alle risorse dei Comuni, che sono scarse. La situazione mi preoccupa molto,  perché nel frattempo cala la crescita».

Fu il suo governo, a fine anni Novanta, ad approvare un blocco navale nei confronti dell’Albania e l’istituzione dei Cpr. Come giudica le politiche attuali in materia migratoria?

«Non si fa politica migratoria con il blocco, che è certamente utile solo a prendere voti. Al di là del bisogno di un’immigrazione ragionata, stiamo sprecando risorse pazzesche. In Italia serve la manodopera, ovunque si cercano lavoratori: dovremmo fare come in Germania, insegnare ai migranti la lingua, fare esami attitudinali. Le persone che arrivano, tra l’altro, non appartengono alla classe più bassa, altrimenti non avrebbero i soldi per affrontare il viaggio».

Torniamo un attimo a Schlein, che per ora non è riuscita a rianimare il Pd. Qual  è stato, secondo lei, il suo più grave errore di comunicazione?

«Di questo non posso essere giudice. Non posso dare pagelle ai politici perché non è il mio mestiere. Dirò solo che il linguaggio della politica deve essere semplice, essenziale e diretto. Berlusconi addirittura diceva: dovete parlare come se aveste di fronte bambini di dodici anni».

Lei ha seguito questo principio?

«Quando ero giovane e scrivevo per il Corriere della Sera, un professore fece fare un’analisi del linguaggio usato negli articoli del giornale. Io usavo un quinto delle parole che usava Andreatta, maestro che pure adoravo, e da cui ho imparato la vita».

Lei sarebbe favorevole a un terzo mandato di Bonaccini come presidente di Regione?

«Si  può fare solo se c’è un accordo nazionale. In linea di principio, la limitazione assoluta sulla durata dei mandati non l’ho mai mandata giù, ma non si possono fare  riforme  ad hoc per i singoli casi. E in Italia, ogni legge elettorale creata ad hoc ha finito per far perdere chi la proponeva pensando di sfruttarla».

Quale sarebbe il sistema elettorale migliore?

«Ne occorre uno che aiuti l’accorpamento in coalizioni, ma che ovviamente eviti di passare a sistemi autoritari, altrimenti finiamo male. Il Mattarellum, secondo me, era un buon compromesso tra la necessità di un governo stabile e il rispetto della democrazia».

Parliamo di esteri. Come valuta la reazione di Israele all’attacco di Hamas? Potrebbe essere l’inizio di una grave crisi in Medio Oriente?

«Nei primi giorni mi è tornata in mente l’espressione “terza guerra mondiale a pezzi”, coniata da Papa Francesco,  perché la mia paura era che il conflitto si congiungesse con la guerra in Ucraina. Per ora non sembra essere accaduto, ma mi ha stupito l’inutile crudeltà dell’attacco di Hamas. Penso che l’odio non  finirà più».

Secondo lei è stato un errore allargare l’Unione Europea ai paesi di Visegrad?

«È stato non giusto, giustissimo. Si immagini se la Polonia o, in generale, i Paesi di Visegrad fossero come l’Ucraina. In che situazione saremmo oggi?».

Questi Paesi, però, da essere democrazie sono passati ad avere governi decisamente più autoritari.

«È la vita. Ritengo che si debba avere molta pazienza, perché la democrazia è fatta di pazienza. In fondo, in Polonia la situazione si sta stabilizzando. E poi, la colpa è anche un po’ nostra».

In che senso?

«L’Unione Europea non può andare avanti a voler prendere le decisioni all’unanimità: così è paralizzata, non decide  più niente. Con l’unanimità non si gestisce neanche un condominio».

A tal proposito, lei è tra i firmatari del manifesto “L’Unione Europea al tempo della nuova guerra fredda” che parla della necessità di un’indipendenza dell’Ue dalle spinte isolazioniste degli Usa. Come dovrebbe muoversi l’Ue per essere indipendente?

«Il primo passo, insisto, è la fine del voto unanime. Senza, l’Europa non  può  più dire una parola. Né sulla guerra né sul commercio né sulle sanzioni: ci rendiamo conto che non c’è stata nessuna mediazione europea in Ucraina? Chi avrebbe dovuto farla, altrimenti?».

E poi?

«E poi è necessaria una politica estera comune. Qui subentra il problema della Francia, che non mette a disposizione dell’Ue il diritto di veto che ha nel Consiglio di sicurezza. Ma la Francia è nazione cieca, come gli ex imperi che guidano guardando solo lo  specchietto retrovisore. Non dimentichiamo che i problemi per l’Ue sono iniziati con il referendum bocciato dalla Francia sulla Costituzione europea».

La spaventa un Trump bis in America?

«Sono molto preoccupato sull’esito delle elezioni. I democratici sono fiduciosi e pensano a raccogliere fondi per il partito, ma anche l’altra volta erano convinti che avrebbe vinto Hillary Clinton».

A proposito di Ucraina: se l’Europa è bloccata, crede che il cardinale Zuppi riuscirà mai a spingere Putin e Zelensky a una trattativa?

«Zuppi ha un ruolo diverso, ma porta avanti un dialogo continuo. Se avesse detto di voler mediare per la pace, nessuno gli avrebbe concesso un colloquio; invece, essendo il portavoce di una missione umanitaria, sta riuscendo a parlare con quasi tutti. Ciò che sta facendo è molto interessante.

L’articolo è stato realizzato per Quindici (qui), il quindicinale del Master in Giornalismo dell’Università di Bologna. (Photo credits: Ansa.it)


Un pensiero riguardo “Romano Prodi, tra Bologna e il Mondo

  1. Bisogna fare nuova intervista per il dopo Garisenda- tutto centro storico va ripensatou

Rispondi