La didattica a distanza deve e può servire al dialogo tra scuola e famiglia

Trasformiamo la polemica in una sfida: i genitori partecipino alla vita culturale dei propri figli, collaborando con i docenti, fidandosi della loro esperienza didattica, della loro formazione pedagogica ed epistemologica, costruendo momenti comuni di confronto e crescita a partire dai contenuti studiati. Senza alleanza educativa, creiamo solo sfiducia, che è l’esatto opposto rispetto all’empatia, alla base di ogni apprendimento

di Cristian Tracà, docente


Il mondo dell’istruzione è in questi giorni di emergenza sotto la lente di ingrandimento, se non sul banco degli imputati, più che mai, nonostante sia uno dei pochi a non aver quasi mai fatto pausa. Con un investimento legato più che altro al digital divide, la grande e colossale macchina della scuola si è messa in moto, cambiando moltissimo e chiedendo pochissimo.

Il Corriere di Bologna ha ospitato negli ultimi giorni una serie di interventi di vario indirizzo, che nascono tutti da un problema di fondo: la difficile condizione della didattica a distanza, con le sue potenzialità, le sue differenze e le sue contraddizioni. Una parte del romanzo a puntate che accresce i propri capitoli ad ogni DPCM, ad ogni circolare e dichiarazione.

Perché nasce il dibattito? Di solito più che le posizioni diverse, sono gli equivoci e ambiguità di fondo a farlo emergere, com’è poi accaduto per le indicazioni sulla passeggiata e sulla corsa vicino casa, che ancora oggi rimane uno dei misteri, rimosso ad un certo punto per stanchezza. Tra capo e collo i Dirigenti scolastici e i docenti si sono trovati a dare risposte, essendo poi il fronte in prima linea che interpreta le normative e le raccomandazioni, con l’aggravante che il mondo della scuola non gestisce merci ma persone, spesso bambini, e movimenta un universo di tipo emotivo spesso connesso con questioni sociali profonde.

Il dibattito si è spesso ridotto a: “Videolezione sì , o videolezione no?”,  “Quante ore? “. I documenti ministeriali invitano più volte gli insegnanti a fare riferimento al proprio sentire didattico e pedagogico, alla conoscenza del proprio contesto e dei propri alunni, ai modelli e alle metodologie sviluppate nel corso della formazione, ai parametri docimologici fissati all’interno delle programmazioni individuali e collettive del singolo istituto. Come a voler dire che insegnare a un diciottenne sarà ben diverso che lavorare con un bambino di sei anni, realizzando anche che una classe connessa con la fibra sarà diversa rispetto a un gruppo di alunni che vivono in zone con connessioni molto lente (e non ci addentriamo nei casi ancora più difficoltosi degli studenti sconnessi, il cui numero anche in una città ricca come Bologna è al di sopra delle aspettative e ci racconta di un bisogno sociale di inclusione digitale come espressione della cittadinanza piena).

Tra gli inviti e le raccomandazioni, il Ministero ricorda anche che una buona didattica è fondata sulla relazione, sullo scambio, sulla correzione, con la consapevolezza che non si possa arrivare a regole più precise in mancanza di una modifica del contratto collettivo, di un aggiornamento dei presupposti della funzione insegnante. La cornice rimane, perciò, di fatto, legata al principio di libertà di insegnamento e a una raccomandazione etica e deontologica per il buon funzionamento della res publica, che fa sempre da sfondo a qualsiasi servizio che lo Stato porta nelle case dei propri cittadini.

Cosa è successo nello step successivo? Il consueto dramma della società italiana: si parte da una carta di intenti nobili, ma poi, o per mancanza di fiducia negli altri o per difficile traduzione in termini pratici, si apre un abisso: si chiede ai Dirigenti di monitorare e controllare, senza che gli stessi poi abbiano degli strumenti per farlo fino in fondo, si mette l’insegnante nella condizione di essere libero,  ma in qualche modo obbligato.

Da dove deriva l’obbligo? Da una prassi che si consolida e che nasce in un orizzonte d’attesa non neutro. Ognuno, con queste premesse, a suo modo, ha provato a dare gambe alle indicazioni, cercando una omogeneità, spesso di buon senso e in punta di piedi rispetto al quadro sopra descritto. Orario di servizio, modalità di erogazione, valutazione, diritto alla disconnessione, regole di comportamento online, privacy, gestione dei dati, piattaforme private a pagamento.

Ad un esterno possono sembrare bizantinismi, questioni secondarie in un momento di emergenza, ma poi quando incidono sulla vita del proprio figlio o della propria figlia si realizza la delicatezza del caso. Cosa succede, ad esempio, se tutti i genitori dietro lo schermo assistono all’interrogazione di un ragazzo in difficoltà o a uno scambio di battute che solleva questioni delicate? La trasparenza di una verifica come si coniuga con il diritto alla riservatezza di alcuni dati sensibili, che talvolta sono gestibili solo con modalità diverse dalla videoconferenza?

Il mainstream però comincia ad elaborare un’equazione tra didattica a distanza e lezione video in sincrono, figlia di un accento molto forte del Ministero e del dibattito sulle piattaforme per la videoconnessione. E se vogliamo essere più maliziosi anche di quel pregiudizio storico nei confronti degli insegnanti: se sono in diretta vuol dire che lavorano, se correggono e preparano beh, forse, chissà, che sarà mai. Problema atavico che la didattica a distanza rispolvera.

Pedagogia? Sparita. Quante persone si sono realmente messe nei panni di un docente che deve contemporaneamente limitare l’esposizione degli alunni al video, trovare il modo di riadeguare i contenuti e le metodologie al nuovo contesto di spazio e di tempi, cercare di coinvolgere i ragazzi, monitorando l’apprendimento? Detta ancora più semplicemente: quanti si sono posti il problema di spiegare il verbo avere a 25 bambini di 7 anni collegati ad una telecamera, senza che sia possibile stabilire un contatto oculare e una prossemica educativa? Quanti hanno provato a spiegare un canto della Divina Commedia in un’ora?

La risposta purtroppo è semplice: pochissimi. Sfugge proprio il nocciolo della questione: che cosa vuol dire insegnare. Sarebbe bello che la nostra società parlasse di questo, che cercasse di capire cosa vuol dire fare storia o geografia per evitare ancora per decenni un appiattimento di queste discipline a nozionismo da cruciverba. Come spiego il portato storico della Rivoluzione Francese in 40 minuti a un ragazzo di 12 anni davanti a una telecamera? Quante ore di lavoro nascosto per cercare i materiali, validarli, caricarli e poi controllare l’apprendimento per ogni singola parte di ogni singola materia di insegnamento? Sarà più efficace il riassunto narrativo, il laboratorio di storia con i documenti al confronto, un video interattivo, delle slides commentate, un film, un questionario, una linea del tempo, una mappa concettuale?

Per ognuno di questi strumenti occorre una preparazione tecnologica e didattica specifica, tempi di formazione, aggiornamento e preparazione. Non a caso in queste settimane proliferano i webinar su contenuti e metodologie. Tutto questo rimane sullo sfondo, di fatto per l’opinione pubblica l’insegnante studia all’università un argomento e poi ogni anno lo ripropone, variando al massimo il libro di testo.

Sono questi i temi che dovrebbero tenere banco, e in questa fase di pausa dovrebbero essere la vita del dibattito. Quanto ci costa socialmente un ragazzo che ha studiato male storia e geografia, per non dire di matematica, lingue straniere, diritto ed economia? I genitori vogliono studiare e leggere insieme ai figli? Benissimo. E’ una grande occasione di crescita sociale per tutti. Troviamo un nuovo spazio, non invadente e non invasivo, per realizzare questa condivisione di senso.


4 pensieri riguardo “La didattica a distanza deve e può servire al dialogo tra scuola e famiglia

  1. Grazie Cristian di avere disegnato con tanta chiarezza componenti e scelte che contraddistinguono una pratica didattica seria. Per quelli che come me vorrebbero capire bene come si articola la pedagogia, anzi il pensiero pedagogico. Per poterne ragionare con qualche cognizione

  2. In tempi dove pare che la didattica a distanza possa risolvere la questione educativa questo docente ci consegna una riflessione pedagogica raffinata e concreta esponendosi in prima persona.

  3. analisi approfondita di un momento storico in cui l’educazione scolastica è messa a dura prova. Rilancia interrogativi sul senso e sul valore dell’insegnamento scolastico a prescindere dal momento attuale. Come viene percepito il “mestiere” dell’insegnante…Forse oggi qualche genitore chiamato ad una maggiore presenza nella vita scolastica dei figli se ne sta rendendo conto. Mai come ora ho percepito un senso di riconoscimento verso gli insegnanti che si stanno adoperando per educare i nostri figli, spero che questo sentimento di empatia rimanga anche dopo la pandemia che ci tiene lontani.
    Nicola

  4. Complimenti per questo articolo utile e prezioso, perché con semplicità e chiarezza (da bravo insegnante qual’è l’autore dell’articolo), fa capire a chi come me, non una addetta ai lavori, la complessità dei problemi e le difficoltà che il mondo della scuola sta vivendo in questa particolare fase storica. L’articolo pone importanti interrogatovi sugli aspetti etici, pedagogici, metodologici e sociali dell’utilizzo tout court della formazione a distanza.

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