La pratica di “al lupo al lupo” dopo la degenerazione del tessuto commerciale bolognese
di Maurizio Morini, manager Mise, direttore di DataLab
Nelle settimane scorse siamo stati tutti coinvolti da un’ondata di riprovazione e forse in qualche caso di sdegno nei confronti delle grandi catene di distribuzione specializzata nel settore moda che hanno deciso di lasciare i centri urbani, e quindi anche il centro di Bologna (in alcuni casi, ad esempio Zara, dichiarando ufficialmente di volersi concentrare sulle presenze nei centri commerciali).
Sicuramente la tematica sociale e occupazionale connessa ha una rilevanza specifica enorme, quindi dal punto di vista della tutela dei posti di lavoro ben hanno fatto coloro che si sono pubblicamente pronunciati con parole di riprovazione al riguardo di tali addii.
Del resto, i dati Istat (aggiornamento 8 agosto, indici sul commercio al dettaglio non alimentare) sono eloquenti: nel confronto con il valore medio mensile 2015, il risultato del periodo marzo-maggio 2020 è stato penalizzante per le grandi superfici rispetto alle strutture di minori dimensioni, che pur denunciando cali tali da metterne a repentaglio la sopravvivenza, hanno mostrato una resilienza superiore alle prime.
Le cause di tutto ciò? A favore delle piccole superfici hanno agito fattori di vicinanza geografica, di fidelizzazione della clientela e di maggior flessibilità generale rispetto alle regole di comportamento.
A sfavore di molte realtà di grande distribuzione nel settore moda hanno poi giocato le caratteristiche strutturali dei punti vendita, con l’oggettiva difficoltà in molti casi a poter rispettare i requisiti post-Covid di densità, a cui si aggiungono i costi per l’adeguamento alle norme e la complessità della gestione delle persone, oltre naturalmente all’assenza di flussi turistici, che soprattutto nel cluster di età più giovane ha determinato un ulteriore rimbalzo negativo.
Ma non è di questo che intendo scrivere. Voglio invece significare il mio stupore nei confronti dell’interpretazione che ho colto in diverse affermazioni relative all’argomento, per la parte nella quale si è evocato il “misfatto” da parte delle insegne-catene colpevoli di aver abbandonato il centro urbano bolognese (non solo, lo ripetiamo: ma questo è il nostro Cantiere!) quasi fuggendo e senza assumersi le proprie responsabilità.
Non è che tali affermazioni manchino di senso, tutt’altro: sono però l’ennesima presa d’atto a posteriori di uno stato delle cose rispetto alle cui origini molti di noi si dovrebbero interrogare, perché sono conseguenza di assenze e mancanze pregresse.
L’assenza più grave è stata quella di una politica che per troppi anni, per un periodo ormai incalcolabile dal punto di vista logico, ha totalmente abdicato in merito a una scelta urbanistica evoluta frutto di una visione programmatica finalizzata al benessere sociale.
La mancanza di maggior rilievo è stata quella, anche in presenza di una oggettiva deregolamentazione, di non aver posto in essere misure di attuazione amministrativa in grado di calibrare e monitorare i processi di cambiamento, lasciando di fatto anche le attuazioni operative in mano alla menzogna plurisecolare del mercato autoregolamentante.
In tutto questo, l’assenza di provvedimenti ad hoc per il commercio urbano qualificato, lasciando che a guidare lo sviluppo siano state, di fatto, le rendite di posizione, ovvero le richieste di affitti per gli immobili commerciali giunte a livelli insostenibili per le realtà locali, appare come la sconfortante conferma di una “città immobile”, sia ferma come visione sia sotto scacco della lobby degli immobili.
Che tutto questo sia capitato e capiti a Bologna, città che per decenni, almeno in Italia, è stata assunta come modello per i riferimenti di regole urbanistiche guidate da una visione sociale, è comprensibile solo alla luce dell’ibernazione in atto della discussione e delle proposte sul modello di sviluppo urbano e metropolitano, che dopo la stagione del confronto sul Piano (2011-2014) si è nei fatti completamente arenato.
E per tali motivi giungono a mio avviso stonate le litanie di chi oggi, a babbo morto e buoi scappati, si lamenta dello stato degli accadimenti.
Come possiamo uscirne? In questo senso, il nome di questa testata è un effettivo riferimento programmatico. Cantiere Bologna può diventare il contenitore della palestra di rilancio del confronto sui temi delle scelte di lungo periodo per lo sviluppo del centro urbano, che può e deve diventare qualcosa di diverso da un “centro commerciale monumentale” (lasciamo che i centri commerciali veri facciano la loro corsa, per favore, non sarà semplice neppure quella).
Indiciamo bandi e studiamo semplici agevolazioni per l’inserimento di proposte innovative, come ad esempio start up commerciali, recupero di lavori storici, vetrine/negozi bandiera per produttori locali aggregati, il tutto nel maggior numero di settori merceologici possibili.
Questa può essere la strada, per tornare a fare politica innovativa e orientata allo sviluppo sociale locale e nel contempo integrato. Su un tale percorso, lo indico per certo, le associazioni di categoria più avanzate si renderebbero subito disponibili; il fermento al loro interno è forte e propositivo, in questa fase, ed unito ad una rinnovata capacità di visione politica può far scaturire un percorso applicativo davvero innovativo.
Qui non si tratta di farci un “in bocca al lupo”: diciamo “viva” se il lupo indifferenziato si riconcentra nei suoi luoghi d’elezione, come i citati centri commerciali. Si tratta di operare per qualcosa di più sfidante: di contribuire a ricreare un “continuum” specifico bolognese che riporti davvero in auge l’unicità della nostra città.
Photo credits: Ubaldo Bitumi
Ricordo, a margine dell’articolo, che l’amministrazione comunale di Bologna nel 2019 ha promulgato un decreto (“Unesco”) riferito al blocco per tre anni delle concessioni relative al settore alimentare, agli internet point, al gaming ed attività di money transfer. Questo è un passaggio da considerare; anche se non incide sui vari temi citati nell’articolo in maniera diretta, dimostra una disponibilità di base ad intervenire. Il tutto va portato ad un livello di proposta strategica, non solo di limitazioni.
Solo una considerazione:
Forse che non si tratta di grande moda ma di moda pronta usa e getta . Credo che invece le politiche cittadine di pedonalizzazioni e valorizzazione del centro storico abbiano offerto una grande vetrina e un grande afflusso di clientela. Spiace per i dipendenti che comunque sono soggetti a licenziamento e tourn-over anche ove le politiche aziendali sono di sviluppo e non di dismissione dei punti vendita.
Speriamo che la vera grande moda sappia profittare delle professionalità licenziate dai gruppi del fast fashion e che i locali lasciati vuoti tornino a riempirsi di marchi degni della tradizione italiana e consoni al nostro centro storico.