Memorie di Adriano

Davanti a un’amministrazione che può non soddisfarci, condivido la necessità di esercitare il sacrosanto diritto di critica. Ma trasformare il dibattito pubblico in una Minas Tirith del nostro scontento, per quanto suggestivo possa sembrare a noi adepti tolkieniani, rischia di renderlo ancora più debole di quanto già non sia

di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB


“Esser dio, in fin dei conti, obbliga ad un maggior numero di virtù che non essere imperatore.”

(Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano)

Capita spesso a chi vi scrive – ma immagino sia un’esperienza comune – di pensare più attentamente a qualcosa nel momento e nel luogo che in apparenza meno le si attengono.

Così, mentre per la terza volta di fila percorrevo il sottopasso di via Bovi Campeggi  – sono figlio di un trasportista, certe cose mi esaltano per natura – ho riflettuto su quanto scritto da Giancarlo Dalle Donne nel suo ultimo intervento sulla nostra rivista. E fermatomi poi a gustare una sigaretta, tra gli interminabili cantieri di via Fioravanti e le rotaie del People Mover sospese nella foschia, mi sono infine convinto che un tale j’accuse meritasse una risposta di qualche tipo, se non altro per la simpatia sincera che nutro verso il suo autore. Dunque eccola qui.

Molto tempo fa, in una vita precedente, mi capitò di conoscere Adriano, uomo pio e buon padre di famiglia. Per anni, insieme alla moglie Teresa, si era occupato degli altri senza chiedere nulla in cambio. E per questo era molto benvoluto. Ma poiché all’epoca – incredibile a dirsi – ero ancora più stupido di adesso, per tutto il tempo che trascorremmo insieme non parlammo quasi mai della sua fede. Eccezion fatta per quella volta in cui, con il suo gruppo di preghiera, si erano impegnati nello studio del Libro di Giobbe e della sua proverbiale pazienza.

Di quel dialogo così intenso, e così vero se rapportato agli sforzi che quell’uomo ha compiuto per tutta la sua vita, conservo ancora un piacevole ricordo. E ci ho ritrovato una certa attinenza con il presente poiché, al pari di Dio, anche la politica ha bisogno di qualcuno disposto a crederle, soprattutto quando le cose non vanno. Del resto, che tra fede e impegno politico ci sia più di qualche affinità sta nella logica delle cose. Bisogna in effetti soffrire di una discreta sindrome messianica per convincersi che le proprie idee possano, in qualche misura, orientare davvero i destini di un’intera collettività.

Naturalmente il nostro compito non è lo stesso dello psicanalista. E dunque, davanti a un’amministrazione che può non soddisfarci, condivido la necessità di esercitare il sacrosanto diritto di critica. Così come capisco la tentazione di rifugiarsi ciascuno nella torre d’avorio del proprio sdegno, candida e rasserenante come la pietra di Ostuni nell’azzurro cielo d’agosto. In fondo, siamo pur sempre a Bologna “la Turrita”. Ma trasformare il dibattito pubblico in una Minas Tirith del nostro scontento, per quanto suggestivo possa sembrare a noi adepti tolkieniani, rischia di renderlo ancora più debole di quanto già non sia.

Per questo motivo, posto che sottoscrivo la gran parte delle criticità segnalate dai bimbi, rifiuto totalmente la loro conclusione, preferendo alla fuga in Egitto un atto di fede in quella religione laica che è la politica. Perché se è vero che, alle volte, ai cittadini è richiesto di esercitare una pazienza biblica, lo è altrettanto che chi amministra la cosa pubblica di norma non è un dio, ma un essere umano. E come tutti gli esseri umani, ha limiti molto più grandi delle sue virtù.


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