Donne e lavoro, molta la strada da fare anche in E-R

Giusto il richiamo di Simona Lembi al tema dell’uguaglianza di genere, ma i dati Istat indicano che c’è tanto da fare perché l’altra metà del cielo diventi la metà anche nell’occupazione. Difficile pensare che un «piano» possa fare molto se non si va a incidere su un mercato che spesso non premia la competenza ma la «produttività», dove la «flessibilità» tanto voluta dai decisori pubblici è solo un diversivo che non ha mai affrontato le questioni che stanno alla base dell’economia galleggiante

di Pier Giorgio Ardeni, economista dello sviluppo


Su Cantiere Bologna Simona Lembi giustamente richiama il tema dell’uguaglianza di genere in relazione al Pnrr, anche nella prospettiva di ridurre le disparità generazionali (“La parità di genere nel Pnrr: un’opportunità concreta”).  Avvertendo che «è necessario compiere uno sforzo importante, immaginare cose che ancora non esistono, condividere obiettivi comuni». Gli obiettivi proposti, però, devono fare i conti con la realtà dell’economia e della società, il che è opera di lunga lena. E i numeri, purtroppo, ci dicono che la strada da percorrere è ancora lunga.

I dati Istat raccontano che nel 2019, l’anno pre-pandemico, le donne erano il 45.2% degli occupati in Emilia-Romagna. Tuttavia, nella classe di età più giovane – 15-24 anni – erano appena il 41.7%. Nel 2021, la quota di donne sul totale è scesa al 44.5% e quella delle più giovani al 39%. Tra gli occupati con al più la licenza media le donne sono solo il 33.1%, tra i diplomati sono il 44.3%, mentre tra i laureati (un quarto degli occupati) sono addirittura il 57.2% (in aumento sul 2019). Le donne sono un po’ di più tra i dipendenti (il 47.6%) che tra gli indipendenti (il 33%) ma il problema è che tra quelle lavoratrici dipendenti quasi un terzo è a tempo parziale (tra le indipendenti, sono più di un quarto): nel complesso, le donne sono l’83.1% del totale dei lavoratori dipendenti a tempo parziale. Non solo, ma tra le dipendenti, ben il 18% delle donne ha un contratto a tempo determinato e rappresentano più della metà dei contratti di quel tipo.

Il quadro, quindi, non è roseo e la metà del cielo deve ancora fare della strada per diventare la metà del mondo del lavoro, almeno nella nostra regione. Se, lo sappiamo, il problema è complesso e riguarda stereotipi e storture sia nella formazione che nella «mentalità», non è facilmente risolvibile con appelli. In un quadro in cui l’economia ristagna e sopravvive, e non solo per colpa dei «mercati».

Simona Lembi richiama, come esempio, il caso dell’edilizia e delle costruzioni. Al di là della «quota 30%» menzionata nel Pnrr, i dati dicono che nel settore delle costruzioni, in regione, le donne sono appena l’11.9% degli occupati (in crescita sul 2019). Mentre i dati nazionali rilevano che in questo settore le donne sono soprattutto addette a lavori impiegatizi, credo sia un lavoro di lunga lena pensare a un aumento della quota di piastrelliste o muratrici. Il muro è già stato «sfondato» nell’istruzione Stem (sono una certa quota le ingegnere), ma perché queste trovino un’occupazione nel settore è il mercato che deve cambiare. Nell’industria, poi, le donne raggiungono appena il 27.4% – e anche lì valgono gli stessi ragionamenti – mentre sono largamente maggioritarie nei servizi commerciali e di ristorazione (51.6%) e soprattutto negli altri servizi (57.2%). 

C’è poi un aspetto più generale. Le donne sono meno della metà della forza lavoro, il che è già un problema di per sé, che segnala limiti dovuti alla loro condizione familiare, oltreché ai noti ritardi sul piano «culturale». Se esse sono meno della metà degli occupati, tra l’altro, sono però il 60% dei disoccupati, i primi a patire la crisi (gli espulsi dal mercato), che sono tuttavia in calo rispetto al 2019 (ma più per scoraggiamento che altro, perché com’è noto, la condizione di disoccupato è data dalla ricerca attiva di un lavoro dopo che lo si è perso). E, infatti, le donne, che pure sono la grande maggioranza degli «inattivi», sono il 60.7% di quella che l’Istat chiama forza lavoro «potenziale» (chi non ha un lavoro ma ne accetterebbe uno se vi fosse l’offerta).

Su tutto pesa, naturalmente, la condizione familiare. Dei più di 2 milioni di famiglie in regione, 1,3 hanno almeno un membro occupato e solo 588mila ne hanno due o più. Quelle con una sola occupata femmina sono 284mila, su un totale di poco più di 700mila con un solo membro occupato. Sono queste, tipicamente, famiglie mononucleari o di madri single. Tra le coppie (819mila), la metà vede entrambi i partner occupati, mentre sono meno di un decimo quelle in cui solo la donna è occupata. 

Un ultimo dato riguarda le retribuzioni. L’Istat ci fornisce i dati medi per uomini e donne, per regioni e province, dei dipendenti del settore privato. La retribuzione lorda oraria media delle donne è di 13,24 euro (contro i 15,36 euro degli uomini), quella mediana è di 11,26 euro, contro i 12,35 dei maschi, quella del primo decile (il più povero) è di 8,32 euro (appena superiore quella maschile), laddove quella del nono decile è di 18,59, contro i 23,50 euro degli uomini. Il che significa che le retribuzioni degli uomini hanno una maggiore variabilità e, soprattutto, aumentano molto di più nei valori alti. È un aspetto del famoso «tetto di cristallo», che persiste anche da noi per quella metà che il cielo lo vede da più in basso.

Si parla di welfare, di servizi alle famiglie, di interventi sull’istruzione. Difficile pensare che un «piano» possa fare molto se non si va ad incidere profondamente su quegli aspetti e su un mercato del lavoro che spesso non premia la competenza ma la «produttività», dove la «flessibilità» tanto voluta dai nostri decisori pubblici è solo un diversivo che non ha mai affrontato le questioni che stanno alla base della nostra economia galleggiante.

Photo credits: Marco Testi


3 pensieri riguardo “Donne e lavoro, molta la strada da fare anche in E-R

  1. Una bella analisi Pier Giorgio, ben sintetizzata nello spazio concesso. Nelle altre regioni, specie nel Sud, è ancora molto peggio. Noto solo che il dato del maggior numero di laureate al lavoro rispetto ai laureati spiega il dato del minor numero di donne sotto i 24 anni al lavoro rispetto ai maschi. Ci sono settori molto femminilizzati storicamente come nella scuola o in epoca più recente nell’università, nella sanità, nella magistratura, nelle professioni forensi, nella ricerca. In alcuni settori ritenuti riservati ai maschi, come il trasporto pubblico e privato, l’Italia come gli altri Paesi latini arriva tardi ma passi avanti ne sono stati fatti. In altri, per es. l’edilizia come tu sottolinei, invece no.

    Hai comunque ragione: non basta un piano, seppure possa essere utile per darsi e condividere un programma. Ma deve essere accompagnato da impegni politici a riformare le norme che regolano il MdL. Un tema che è oggetto di alcune Agorà sul lavoro.
    L’Italia è indietro per i livelli salariali, per il sostegno ai redditi bassi derivanti anche dal p.t. involontario, per le disuguaglianze e discriminazioni di genere e ancor più nei confronti di immigrati a volte ridotti alla schiavitù, per le insufficienti politiche attive del lavoro e per i livelli di istruzione e formazione in generale e a seconda dei territori. Persino in USA hanno capito che gli insegnanti migliori vanno mandati nelle scuole peggiori.

  2. Grazie, Paolo, per i tuoi commenti. Spero che le vostre Agorà servano a far maturare nel PD una consapevolezza nuova. Buon lavoro

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