“Modello Bologna”, non replicabile al voto

Incauto definirsi “città più progressista d’Italia”. Il «partitone» governa un sistema che ancora regge, con una base sempre più esigua, sempre meno popolare, ma «interclassista». Del progressismo riformista se ne fa un vanto, ma non può essere modello perché nel resto d’Italia ci sono masse incattivite, penalizzate, escluse, marginalizzate. Il vento è cambiato e ora gira a destra, facendoci rabbrividire. Ma proprio dalla nostra città dovrebbe partire una riflessione su cosa non ha funzionato

di Pier Giorgio Ardeni, economista dello sviluppo, candidato al Senato per Unione Popolare


Mi scuseranno i lettori se intervengo di nuovo, a mo’ di replica. Se è un piacere l’aver posto questioni che hanno provocato un dibattito – discutere è sempre un bene – non posso non notare che in pochi casi si è risposto «dati (fatti) alla mano». Non abbiamo fatto abbastanza sull’ambiente? Guarda qui! Annalisa Boni ci ha provato, mancando un tantino l’obiettivo. Non abbiamo fatto abbastanza su questo e quello? Ecco qui! No. La replica, per lo più, si è fermata su chi scrive (ma che c’entra?) o a ricordare quanto stiamo meglio di tanti altri, e tant’è, rendendo il dibattito, appunto, “stucchevole”.

Le critiche erano due: il «modello Bologna» sbandierato dopo le ultime amministrative – alleanza ampia, da Italia Viva ai 5 Stelle a Coalizione civica, centrata sul Pd – non si è esteso a livello nazionale; Bologna è «la città più progressista d’Italia», ma in molti aspetti ciò non pare proprio (la città che «dorme», i problemi del resto d’Italia ce li ha anche Bologna e le soluzioni proposte non sono molto diverse).

A scorrere gli interventi a difesa, le due critiche non paiono trovare smentita, se non che «a Bologna si vive meglio», ma di che ci lamentiamo quando «il mondo brucia», «Bologna può fare quello che può quando è Roma che decide». Ora, la locuzione «modello Bologna» si riferiva all’alleanza elettorale, e la sua non replicabilità ora è un dato di fatto. Incauto fu forse voler fare di una convergenza ad hoc un «modello». Peraltro, la manovra «furba» fu di negoziare con le varie componenti nella fase delle Primarie – con tanto di garanzie e di promesse – vanificando così una discussione più vera se questa fosse accaduta in campagna elettorale, costringendo magari il candidato sindaco al ballottaggio. Ma tant’è. Il punto, però, va oltre: perché il Pd bolognese, con le elezioni del 2021, non ha che confermato il suo elettorato, raccogliendo quello più prossimo. A conti fatti, da molte elezioni a questa parte (come avevo argomentato in altri articoli su queste pagine), il Pd e i suoi alleati non fanno che perdere elettori, che in numero sempre minore si recano alle urne. Hai un bel vantare percentuali, quando la base si restringe.

La seconda critica riguarda l’ancor più incauto appellativo di “città più progressista d’Italia”. Diamine, se davvero così fosse mi aspetterei misure e iniziative audaci, ardite, che si distinguono. Che so, la «città più verde d’Europa»: trasporto elettrico gratis per tutti, centro storico chiuso al traffico, incentivi all’uso di energie rinnovabili, e via dicendo. Solo un esempio di qualcosa che, sì, avrebbe attirato i media d’Europa per dire: guardate, Bologna è la città più verde d’Europa. Invece, tanto per dire, il rapporto Ispra grida vendetta: anche a Bologna, nel 2021, il consumo di suolo è aumentato del 3%. È in grado questa amministrazione di promettere che il rapporto Ispra 2022 dirà: aumento zero per cento? Oppure, «Bologna città della cultura»: che so, una nuova casa della cultura, un programma estivo di 100 spettacoli teatrali e musicali per le piazze del centro, 100 luoghi dati alle associazioni per attività culturali, un festival di poesia internazionale al parco Cavaioni, e via così. Per far dire: Bologna è davvero diversa in fatto di programmazione culturale.

In cosa saremmo la città più progressista d’Italia? Certo, come ricorda a più riprese Giampiero Moscato, prima di parlar «male» dei nostri amministratori, guardatevi attorno e, soprattutto, criticate questa destra mendace e raccapricciante. Ma il punto è questo. Perché una destra così trova consenso? Forse a Bologna ne troverà meno che altrove ma ne trova. Perché? Come ho argomentato altrove – nel mio libro sulle radici del populismo (Laterza, 2020) e in questo articolo su Domani – se parte delle classi popolari hanno cominciato a guardare ai 5 Stelle, alla Lega e ora a Fratelli d’Italia è proprio perché a sinistra non hanno trovato più ascolto. La sinistra se ne è dimenticata. Criticare, anche a Bologna, questo Pd e i suoi alleati vuol proprio dire andare al nocciolo della questione.

Ma come, un partito post-fascista, su posizioni reazionarie e preoccupanti, riesce a sposare neo-conservatorismo e populismo, coagulando ceti medio-bassi esclusi, precari, “coatti” delle periferie, rancorosi piccolo-borghesi con le élite più retrive? Perché certi ceti popolari che ancora vanno a votare non si ritrovano più nelle promesse di chi da tempo ormai ha finito per guardare solo ai ceti protetti. Con qualche eccezione, magari.

Il «partitone» bolognese governa un sistema che ancora regge, con una base sempre più esigua, sempre meno popolare, ma «interclassista». Del progressismo riformista se ne fa un vanto, ma non può essere modello perché nel resto d’Italia ci sono masse incattivite, penalizzate, escluse, marginalizzate. Il vento è cambiato e ora gira a destra, facendoci rabbrividire. Ma è proprio dalla nostra città dovrebbe partire una riflessione su cosa non ha funzionato.

Photo credits: eikon


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