Il capo della Banda della Uno bianca, che un anno fa aveva fatto dichiarazioni spontanee alla Procura di Bologna per attribuirsi alcuni attentati negli anni ‘70 per conto di gruppi dell’estrema destra a Rimini, qualche tempo fa aveva chiesto, attraverso la penalista Donatella Degirolamo, di essere intervistato da Cantierebologna.com. Eravamo in attesa del placet della direzione del carcere di Bollate quando è uscita un’indiscrezione pesante: «Feci attentati a Rimini per l’estrema destra»
di Giampiero Moscato, direttore cB
Roberto Savi, quello che era il “Corto” ma soprattutto il capo della famigerata Banda della Uno bianca, magari ha solo voglia di mutare il suo status di ergastolano mai uscito dal carcere in cui è rinchiuso dal novembre 1994, quando lui, i fratelli Fabio e Alberto e altri tre poliziotti della Questura di Bologna, che avevano scelto di fare i criminali, furono arrestati dopo sette anni di terrore tra l’Emilia-Romagna e le Marche.
Oppure davvero desidera chiarire le zone d’ombra che restano impresse sul suolo di queste terre dal suo passaggio nella nostra storia.
Cantiere Bologna era infatti in attesa di un placet della direzione della casa di reclusione di Bollate (Milano) – dove Roberto e Fabio Savi stanno scontando la loro pena – alla nostra richiesta di intervistarlo su sua proposta. Di certo è che ha voglia di parlare, di dire qualcosa. Ora si sa che tra questo tipo di cose c’è anche qualcosa del suo passato addirittura precedente alle gesta criminali che fece dismettendo la divisa da questurino: in videoconferenza da Bollate ai Pm un anno fa ha detto di aver compiuto da solo, ma per conto di gruppi dell’estrema destra, alcuni piccoli attentati con ordigni, senza vittime, nel Riminese.
La richiesta di intervista mi era arrivata dall’avv. Donatella Degirolamo, la penalista bolognese che da sempre cura la difesa di Roberto Savi. Con delicatezza, dopo vari colloqui telefonici con il suo assistito (ogni settimana al venerdì il detenuto ha diritto a una telefonata con la sua legale), mi aveva detto che sia il suo cliente sia lei avevano individuato in me il giornalista che, per la propria storia e per la conoscenza delle vicende che avevano causato l’omicidio di 23 persone e il ferimento di un centinaio, avrebbe potuto porgli le domande giuste per raccogliere le sue dichiarazioni.
Forse anche perché fui il primo a parlargli, pochi giorni dopo il suo arresto nel novembre ’94: era stato portato a processo per un delitto commesso addirittura in divisa, nella cella di sicurezza della Questura, ai danni di un tossicodipendente. Grazie a buoni rapporti con qualcuno che contava, in quel momento, a Palazzo di Giustizia, ebbi modo di parlare con lui, rinchiuso in una gabbia di un’aula. Fu un incontro con la banalità del male: indelebile. Forse Savi si sarà ricordato di quel primo contatto con la stampa che lo avrebbe consegnato alla storia per il suo profilo criminale.
Io non lavoro più all’Ansa dal 2018, non sono più corrispondente del Corriere della Sera dal 2013 e dunque la richiesta mi colse di sorpresa. Non lavoro in un grande mezzo di informazione, replicai. Aggiunsi che l’unico tra i mezzi di informazione per i quali continuo a lavorare che avrebbe potuto ospitare un’intervista da remoto, su una piattaforma digitale, poteva essere il nostro piccolo cantierebologna.com. Savi e la sua difensora risposero che sarebbe andato benissimo, consapevoli che le nostre interviste vanno su YouTube e che dunque una storia così importante, come altre in passato, sarebbe stata ripresa dagli organi di informazione più importanti con tanto di citazione.
Posi alcune condizioni per accettare. Primo, Savi avrebbe dovuto rispondere a tutte le domande, in presenza di Donatella Degirolamo. Secondo, con me ci sarebbe dovuto essere il condirettore Aldo Balzanelli, cronista di enorme valore con cui da tre anni condivido le interviste web del Cantiere. Terzo, la registrazione avrebbe dovuto essere curata dal caporedattore Pier Francesco Di Biase e dal consulente digitale Andrea Femia. Quinto e più importante, Savi avrebbe dovuto parlare con rispetto delle vittime e dei loro familiari, dicendo la verità e senza usarci per fini impropri o malevoli.
Savi accettò e a metà gennaio partì la mia posta elettronica certificata per la direzione del carcere di Bollate. Non abbiamo ancora ricevuto risposta ufficiale ma venimmo a sapere che a Savi era stato detto da una figura interna al penitenziario che avrebbe avuto presto la liberatoria. Siccome non arrivava, ci eravamo ripromessi che, se entro la settimana non avessimo avuto notizie positive, avremmo scritto di questa sua richiesta sul nostro giornale. Per far sapere che qualcosa si muoveva dalla cella in cui Savi sta scontando il carcere a vita.
Siamo stati anticipati e messi in crisi da questo scoop dell’Ansa (qui) che ha scritto, ieri pomeriggio, di questo racconto tardivo dell’ergastolano. Non risultano commenti della Procura su questo scoop. Da quello che si può intuire, probabilmente, parlando di fatti di fine anni ’70, forse è difficile trovare riscontri a strani racconti che comunque gettano altre ombre inquietanti sulla storia della Uno Bianca, come ha sottolineato tra gli altri il deputato Pd Andrea De Maria.
Ieri ha parlato, sempre con l’Ansa, l’ex procuratore aggiunto di Bologna Valter Giovannini che, da pubblico ministero, condusse l’accusa nei processi bolognesi sulla banda dei Savi: «Era emerso che Roberto in gioventù aveva frequentato ambienti neofascisti del Riminese. La verità processuale su fatti accaduti successivamente è quella affermata nelle varie sentenze di condanna. Assolutamente nulla emerse circa possibili collegamenti con soggetti diversi da quelli individuati dalla Procure di Rimini e di Bologna».
A noi resta la voglia di fare una serie di domande nell’intervista che attende l’autorizzazione. Magari Savi, che si vede invecchiare senza speranze dietro le sbarre, ha in mente di fare qualcosa di buono per ottenere qualche vantaggio: dipanare i dubbi che per molti restano sulla sua vicenda poliziesca e criminale e magari chiedere scusa ai tanti che hanno sofferto per lui nel modo migliore, dire la verità.