Quella dell’ex Vivaio Gabrielli poteva essere una storia nuova e interessante, finalmente libera da stilemi passati. Così non è stato e il potenziale film dell’anno si è trasformato nell’ennesima commedia all’italiana
di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB
Che le occupazioni autogestite non rappresentino più una notizia, a Bologna, lo testimonia la scarsa rilevanza che media e opinione pubblica hanno accordato nelle ultime ore alla vicenda della Vivaia Tfq, sgomberata martedì mattina dalle forze dell’ordine dopo poche settimane di esistenza.
Qualcuno, per spiegare il disinteresse generale, dirà che ci siamo ormai assuefatti a una narrazione tossica che normalizza la gentrificazione con argomenti legalitari. Qualcun’altro, decisamente più terrigno, sosterrà che la proprietà è un diritto da tutelare a prescindere e senza porsi troppe domande sulle modalità con cui lo si fa. Per quanto mi riguarda, credo più banalmente nella stanchezza del pubblico per uno spettacolo che si ripete ciclicamente e con identico copione da anni. In fondo, è la stessa sorte toccata alle occupazioni scolastiche.
Nell’epoca della serialità generalizzata e della standardizzazione delle pratiche economiche e sociali, non stupisce osservare come anche chi, sulla carta, si oppone al modello tecnocapitalista imperante finisca inevitabilmente per assumerne i fondamentali: trovo un prodotto che “funziona”, lo riproduco in serie adattandolo di volta in volta al contesto e al target di pubblico che voglio intercettare, attivo le strategie di marketing valoriale utili a creare consenso, dunque condivisione, quindi viralità.
Niente di tutto ciò, naturalmente, garantisce il successo dell’operazione. Come accade alle serie tv o alle collezioni di scarpe, quello che fa la differenza nei processi socioculturali odierni è la capacità di trasmettere un senso di novità anche nella ripetizione. E, contestualmente, di saperlo gestire.
Con Vivaia Tfq era successo esattamente questo: quella che all’atto pratico era semplicemente l’ennesima occupazione si era trasformata in un fenomeno collettivo e trasversale, che aveva coinvolto fisicamente o emotivamente tante diverse persone e realtà (qui l’articolo di Sergio Palombarini scritto in proposito), mobilitato l’interesse generale e, con esso, la disponibilità della politica a ricercare una soluzione che, in altri casi, non era stato possibile trovare.
Che cosa è accaduto dunque? Perché un potenziale successo si è trasformato in un indiscutibile flop? Forse mi sbaglio, ma credo che sia mancata proprio la capacità di gestione. Non della politica – cui è difficile rimproverare qualcosa in questa occasione, visti anche il comunicato di Coalizione Civica (qui) e le parole del sindaco Matteo Lepore (qui) che preludevano a una soluzione accettabile per tutti, a partire dagli occupanti – quanto piuttosto del collettivo, che ha scelto un finale scontato erigendo un muro fatto di pretese dispotiche e consapevolmente irrealizzabili. Per capirlo, basta leggere il suo comunicato (qui).
Parole come “bando” o “coprogettazione”, infatti, non sono bestemmie ma pilastri di un mondo, quello del volontariato e del Terzo Settore, che evidentemente chi ha scritto il comunicato conosce poco. Non sono nemmeno un ricatto o un giogo, bensì strumenti di reciproco riconoscimento tra amministrazione e associazioni, al fine di tutelare la condivisione e la democraticità nella gestione degli spazi pubblici. Infine, non sono concetti astratti ma sostanziali, che si concretizzano ogni giorno in centinaia di luoghi e di realtà della nostra città. Rigettarli, pretendendo un’esclusiva e una superiorità alle leggi che non può avere seguito in un consesso democratico, è un insulto a questo mondo oltre che un’attività italiana doc, da fare invidia a parmigiano e pomodori pachino. Un classico nostrano, che tuttavia non ha più granché da dire.
Vien da pensare che, forse, ha avuto ragione chi aveva scommesso sul fatto che l’interesse reale degli occupanti, in questa storia, fosse molto più politico che sociale: arrivare allo scontro con i partiti di governo, per potersi poi accreditare con gli amici dei movimenti extraconsigliari. Probabilmente non lo sapremo mai. Eppure, se così fosse, sarebbe un ulteriore segnale di come, anche a Sinistra, ormai conti molto più l’immagine della sostanza.
In tutto questo teatrino, a noi osservatori resta l’amara constatazione che il potenziale film dell’anno, anche stavolta, si è trasformato nell’ennesima commedia all’italiana, risparmiandoci soltanto il ritorno di Boldi e De Sica. Una pantomima che non fa ridere e per la quale nessuno, salvo autolesionismi, è più disposto a pagare il biglietto.
Photo credits: Tgr Emilia-Romagna
Ragione totale