Lutto cittadino per le vittime e boicottaggio di Tel Aviv? La proposta viene dal mondo accademico che chiede a Netanyahu il cessate il fuoco ma non chiede ad Hamas di liberare gli ostaggi e di non lanciare missili sui civili israeliani. Il pacifismo di chi definisce lo Stato ebraico “qualcosa di mostruoso”
di Achille Scalabrin, giornalista
È difficile parlare di quanto sta accadendo in Israele e a Gaza se non si dismettono casacche, pregiudizi, partigianerie, pressapochismi, se non si cerca un nuovo orizzonte che prescinda dalla storia fin qui vissuta, dai torti e dalle ragioni fin qui accumulati sull’una come sull’altra sponda.
Bisogna immaginare un anno zero entro cui sancire il diritto di esistere sia per lo Stato di Israele sia per lo Stato palestinese, secondo modelli di vicinanza e di reciproca legittimazione che sembrano oggi impensabili. Ma trasformare l’impossibile in realtà è la sfida a cui sono chiamati gli uomini di buona volontà. E la speranza che una pace e un’intesa siano possibili in Medio Oriente dopo questa guerra rimanda la memoria a ciò che è stato tra Germania e Europa, tra Spagna e Paesi Baschi, tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord e (in dimensioni diverse) tra Italia e Sud Tirolo. Disarmare, e pacificare gli animi e le menti, è il preludio.
Non servono allora le petizioni per il “cessate in fuoco” a Gaza se il presupposto è che Israele non deve esistere. Perché questo è lo spirito che aleggia in entrambi i documenti prodotti a Bologna in ambienti universitari da sempre ostili allo Stato ebraico. Nel momento in cui si chiede giustamente a Netanyahu di non infierire sui civili palestinesi in quella che è una difesa legittima ma spropositata, non si può non chiedere a Hamas di liberare gli oltre duecento civili israeliani presi in ostaggio e di cessare il lancio di missili sul territorio israeliano. Ma ciò è ovviamente impossibile da parte di chi considera la strage del 7 ottobre compiuta dall’ala dura della formazione jihadista un semplice effetto del “contesto coloniale brutale” imposto da Tel Aviv.
E tanto meno si può chiedere giudizi obiettivi a chi utilizza fake news per avvalorare le proprie tesi. Tale è infatti l’affermazione secondo cui da 75 anni l’Onu denuncia l’occupazione militare e l’apartheid di marca israeliana. Significa negare che il 29 novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu approvò con una maggioranza di due terzi il piano che prevedeva la spartizione della Palestina occidentale in uno Stato ebraico e in uno arabo. Fu accolto con favore dagli ebrei ma osteggiato dagli arabi. Significa ignorare che nel 1949 Israele, un anno dopo la sua nascita, fu ammesso a far parte dell’Onu con il voto favorevole di 167 Paesi membri su 193. Ma è altrettanto vero che la Guerra dei Sei giorni nel 1967 ha segnato uno spartiacque e che ai governi israeliani impegnati nella ricerca di una pace duratura con i palestinesi sono subentrati governi oltranzisti impegnati a imporre una concezione messianica tale da disintegrare ogni possibilità di intesa. E Netanyahu è il simbolo più brutto, così come i coloni nei territori occupati sono la sua testa d’ariete.
Le donne che, avvolte da un disdicevole quanto irritante anonimato (qui), hanno promosso una delle due mozioni, citano Ovadia e Segal ma con un piccolo sforzo avrebbero potuto aggiungere i nomi di Amos Oz, David Grossman, Daniel Gordis e dei tanti intellettuali e politici israeliani che, da decenni, si dissociano dalla politica stolta della destra.
Aspettiamo ora che le medesime ci comunichino i nomi degli intellettuali e dei politici palestinesi che si dissociano dal terrorismo di Hamas, dall’antisemitismo e che riconoscono a Israele il diritto di esistere. Oppure, ci dicano loro stesse se si riconoscono in questi fondamentali principi democratici o se continuano – come hanno dichiarato a Cantiere Bologna – a definire Israele «qualcosa di mostruoso» da cancellare quanto prima. Nel frattempo, accogliere la loro richiesta di un lutto cittadino per i fatti di Gaza e del boicottaggio di Israele da parte di Bologna, significherebbe soltanto accreditare una visione manichea della tragedia che quei territori vivono da decenni. La pace e la democrazia hanno bisogno di altro.