La cittadinanza non è un’opinione

«Difficile accettare “che sia uno status cui la persona deve aspirare consapevolmente”, perché allora l’assegnazione della cittadinanza dovrebbe funzionare in tal modo per tuttə. La cittadinanza non è affatto una scelta e tanto meno una questione identitaria, ma una questione puramente giuridica e legale»

di Sarah Abdel-Qader, operatrice culturale


Si leggeva di recente su queste pagine un articolo controverso sull’introduzione, nello Statuto del nostro Comune, della cittadinanza onoraria bolognese alle persone nate in città o che hanno qui completato un ciclo di studi.

Al di là di chi gioisce, sarebbe ingenuo vedere in questa modifica una vittoria o una men che minima conquista. Siamo ancora lontanə dall’essere a questo punto, ma dovremmo leggere questo evento per quello che è: un atto simbolico che va tramutato in azione concreta a livello nazionale. 

Difficile invece seguire chi nel 2022 sostiene che sia più utile facilitare le pratiche di soggiorno che lo ius scholae. Ancora più a fatica si può accettare “che la cittadinanza sia uno status cui la persona deve aspirare consapevolmente”, perché allora l’assegnazione della cittadinanza dovrebbe funzionare in tal modo per tuttə, anche per le persone nate da entrambi i genitori con cittadinanza italiana. Posso mettere la mano sul fuoco nel dire che la maggior parte dellə italianə non saprebbe indicare quando e come l’Italia si è costituita come stato nazionale unitario, né quando e come è diventata una Repubblica.

Mi permetto dunque di dissentire con l’ex magistrato: la cittadinanza non è affatto una scelta e tanto meno una questione identitaria, ma una questione puramente giuridica e legale, per tanto pratica. Riconoscere la cittadinanza a chi è nato in un luogo, o ci studia, o ci arriva talmente giovane da non poter ricordare lo stesso viaggio che lə ha condottə nel posto in cui vive, dovrebbe essere scontato, e non ignora l’aspetto identitario. Non è il proprio status giuridico a definire la propria identità, e basterebbe parlare con lə figliə di coppie miste o di origine straniera per comprenderlo.

La cittadinanza garantisce diritti e doveri: lə giovanə che stanno lottando per questo riconoscimento lo sanno bene, e aspirano tanto ai diritti quanto ai doveri. Tuttavia, il loro stato ancora non lə riconosce come italianə. L’ironia vuole che queste persone si sentano culturalmente italiane, ma anche altro. Questo definisce la loro identità. Dovremmo forse anche chiederci cosa voglia dire essere italianə: tutto e niente. Difatti, lo stesso dibattito non si scatena per i figli di italianə all’estero che ottengono automaticamente la cittadinanza, senza probabilmente conoscere lingua e cultura italiane. 

Ricordiamo che non scegliamo dove nascere, così come non scegliamo la famiglia o il ceto in cui nascere, anzi non scegliamo nemmeno di nascere. Pertanto, sembra ridicolo che in un mondo globalizzato ancora si debba parlare di chi abbia diritto o meno alla cittadinanza del paese in cui vive, studia, lavora, consuma, si riproduce. 

È ora di prendere atto che i nazionalismi sono anacronistici rispetto ai tempi in cui viviamo: le condizioni economiche, politiche ed ecologiche hanno accelerato drasticamente la frequenza dei fenomeni migratori, che ad ogni modo hanno sempre fatto parte della storia dell’umanità. Questo vale anche per lə milioni di italianə sparsə per il mondo, che hanno trovato migliori condizioni di vita rispetto al loro paese di origine. Perciò, l’evoluzione culturale e sociale che inevitabilmente vede le nostre società sempre più miste è un semplice dato di fatto, che piaccia o meno. Riconoscerlo giuridicamente diventa una formalità dovuta. 

Inoltre, i tempi sono maturi per comprendere la ricchezza che deriva dalla fluidità identitaria e dalla contaminazione culturale. 

Basta definirli immigrati di seconda generazione: sono italianə a tutti gli effetti, con i doveri ma ancora senza i diritti. 

Basta parlare di integrazione, perché l’integrazione presuppone una ammissione da parte del gruppo dominante e una rinuncia da parte del gruppo minoritario. 

Basta con il topos dello straniero bravo, che lavora e paga le tasse, e pertanto dopo 10 anni di sudore può richiedere la cittadinanza.

L’augurio è che ius soli e ius scholae invece dell’eccezione diventino la norma, almeno nell’Europa che millantiamo tanto illuminata, ma dove ancora spariamo a vista a coloro di cui non gradiamo il colore della pelle o il portafoglio.

Photo credits: Ansa.it


Rispondi