Ciò che nasce e si sviluppa in un dato territorio vi rimane legato perché deriva dalla particolare combinazione di elementi che caratterizzano il territorio stesso e la sua comunità. Lo schema politico bolognese è una creatura endemica che non possiede virtù salvifiche. E dal momento che i cittadini continuano a sceglierlo, non resta che chiedersi: come migliorarlo?
di Daniele Ravaglia, presidente di Alleanza delle Cooperative Italiane – Bologna
Il cosiddetto modello Bologna è perfetto così com’è? Il dibattito che si è svolto nei giorni scorsi su Cantiere Bologna pone vari dubbi. A tal proposito, concordo con il direttore Moscato quando afferma che, malgrado tutte le contraddizioni che possiamo individuare, potrebbe andare molto peggio (“Il mondo è in fiamme ma in crisi è il modello Bologna”). D’altronde, i risultati elettorali possono essere influenzati da componenti di tradizionalismo (“si è sempre votato così”), ma in periodi caratterizzati da fortissima volatilità del consenso non credo che la tendenza al conservatorismo basti a spiegare i successi ottenuti.
Quanto alla possibilità che il modello di relazioni politiche e amministrative bolognesi potesse venire applicato a livello nazionale, fin dall’inizio ero tra gli scettici. L’idea appariva come una congettura utile per animare i convegni più che come un progetto realmente praticabile. Ciò che nasce e si sviluppa in un dato territorio vi rimane legato perché deriva dalla particolare combinazione di elementi che caratterizzano il territorio stesso e la sua comunità. Le forme sociali per propria natura sono “morfogenetiche”, come spiega il professor Zamagni, ossia tendono a plasmarsi in base al contesto sociale in cui si sviluppano.
Posto allora che il modello Bologna rimane una creatura endemica e che non è depositario di virtù salvifiche, dal momento che i cittadini continuano a sceglierlo, non resta che chiedersi: come migliorarlo? Nella lunga esperienza che ho maturato come cooperatore ho notato che anche le realtà migliori quando si chiudono tendono a impoverirsi e a sfibrarsi. E il successo elettorale può portare alla tentazione di chiudersi o di ripetersi in modo acritico, all’autoreferenzialità insomma. Sul lungo termine, il detto “squadra che vince non si cambia” non funziona. Perché la squadra che non cambia prima o poi smetterà di vincere.
Una città come Bologna non può fare a meno dell’innovazione: non solo di assorbirla da fuori, ma di generarla dall’interno. La questione va affrontata a partire dal pluralismo che caratterizza la città. La crisi del modello Bologna può essere prevenuta solo guardando al di fuori del “sistema”, ai mondi dell’impegno civile: volontariato, cooperative sociali, imprese, organizzazioni di categoria. La politica deve proporre un criterio di riferimento diverso. Non quello delle appartenenze, ma quello dell’impatto sociale da generare. Su questo fronte le premesse politiche ci sono, ma in parte sono ancora trascurate. C’è una delega importante e innovativa nell’Amministrazione bolognese tra quelle conferite nel 2021, quella alla sussidiarietà circolare. Finora è rimasta latente. Quello della sussidiarietà è il paradigma giusto perché apre a forme di partecipazione rafforzata che riguardano le priorità dell’azione politica e le modalità concrete per attuarle. Solo così si genera il cambiamento necessario per passare dagli slogan alla realtà.
Da questo punto di vista, il tema ambientale è significativo. Sul tema dell’ambiente c’è una certa enfasi – non solo a Bologna – non sempre seguita dall’impegno generalizzato che si potrebbe auspicare. La soluzione non passa per via meramente politica, c’è un grande patto da chiudere con la città, come scrive su Cantiere Bologna Anna Lisa Boni, assessora con delega alla transizione ecologica (“Un Contratto cittadino per il Clima”). Senza un impegno ampio e partecipato, l’ambizioso traguardo “impatto climatico zero”, a cui Bologna si è candidata per il 2030, non solo non potrà essere raggiunto nei prossimi 7 anni, ma nemmeno nei decenni a venire.
In sintesi – sempre citando Zamagni – la questione è civile, non solo politica, perché interessa il complesso delle relazioni della civitas, non solo le istituzioni.
Un ultima nota: finora il modello Bologna è stato fin troppo “bolognese”. È necessario che diventi sempre più metropolitano, capace di guardare fino a Imola, verso l’Appennino e nel profondo della bassa, tendendo a quel coinvolgimento che finora ha avuto come perimetro il solo Comune. La transizione auspicabile per il modello Bologna riguarda al contempo le relazioni civili e a quelle territoriali.
Photo credits: Herbert Frank (CC BY 2.0)
Bene Se Galletti non si fosse ritirato le cose andavano diversamente