Caro procuratore, un delitto è una notizia che va data

Non è possibile sapere solo un anno e mezzo dopo che una donna è stata assassinata a Bologna, secondo l’accusa dal marito. Non c’è tutela di un presunto innocente che possa scavalcare il diritto-dovere all’informazione. Né un governo né una procura possono decidere cosa va in pagina su un giornale e cosa no. Che ci fosse un fascicolo aperto per una morte violenta, anziché naturale, avremmo dovuto saperlo subito. I poteri si bilanciano e la stampa deve controllare cosa fa, o fa male, anche la magistratura

di Giampiero Moscato, direttore cB


Caro dottor Giuseppe Amato, la conosco personalmente e la stimo da quando è diventato procuratore della Repubblica a Bologna, qualche anno fa, quando ero ancora capo della sede regionale dell’agenzia Ansa. Le sottopongo un caso che riguarda lei e me in quanto cittadini e solo secondariamente lei anche come magistrato requirente e me come cronista: il presunto omicidio della ginecologa Isabella Linsalata, il 31 ottobre 2021, che sarebbe stata assassinata (condizionale d’obbligo: è una vostra ipotesi che altri giudici e pure la stampa dovranno verificare) e che il killer sarebbe il marito (ex medico per alcuni anni della Virtus), Giampaolo Amato. Quel fatto, fino a ieri, era stato descritto come morte naturale, non violenta.

Da quando l’ho conosciuta sono stati diversi e sempre molto utili gli incontri, tutti istituzionali, avuti con lei. Credo che abbia capito che sono un garantista di natura e di cultura, uno di quelli cresciuti credendo che siano meglio cento colpevoli liberi che un innocente in galera e che la presunzione di innocenza sia un dogma imprescindibile, uno dei principi cardine della nostra amatissima Costituzione.

In nome di questo principio sacro sono d’accordo con ogni tentativo di evitare che un avviso di garanzia possa diventare una gogna anticipata, alla faccia delle tutele che vorrebbe assicurare a chi sia colpito dal sospetto di un crimine. Troppe volte, lo so per avere fatto per oltre vent’anni il cronista giudiziario, quel sospetto si è trasformato in errore investigativo e mediatico. Troppo spesso quando lo si scopre è troppo tardi per chi ha dovuto subire l’onta e le sofferenze di un’inchiesta e di un processo che si svolgono anche e soprattutto sulle pagine dei giornali e sugli schermi televisivi, a volte in forme peggio che discutibili. Ben vengano, dunque, norme che in nome del garantismo e della presunzione di innocenza provino a impedire di sbattere il mostro in prima pagina prima di sapere se effettivamente mostro sia.

Il Decreto Cartabia, dal nome della ministra della Giustizia che l’ha firmato, sicuramente ha in sé questa nobile intenzione. Fin qui tutto bene, caro procuratore. Quando però una giusta garanzia costituzionale si presta a storture come il caso che mi spinge a scriverle c’è qualcosa che non va.

Nessuno, nemmeno un governo e tanto meno una procura, può sostituirsi alla stampa per decidere cosa possa finire sul giornale o cosa invece debba restare coperto dal segreto. So bene che ci sono limitazioni al diritto-dovere di informare. So che ci sono notizie coperte per legge da segreto. So che si discute se sia giusto fare o meno il nome di un sospettato. E lo capisco pure. So che le motivazioni sul riserbo, in questo caso, e sulla negazione di pubblicare l’ordinanza di custodia cautelare, sono dettate da ragionj “investigative”: servono dunque a aiutare la ricerca della verità. Non è su questo che la disturbo. 

Ma che ci sia a Bologna (vale per ogni città, sia chiaro, ma il nostro è giornale bolognese) un fascicolo aperto (e da quando? Da subito? O di recente? E del movente presunto, perché non dite una parola?) negli uffici che lei guida per l’omicidio di una donna non possiamo saperlo un anno e mezzo dopo il fatto. Chi ha deciso che un delitto (non il nome di un sospettato, parlo di un fatto, di un omicidio) non debba essere comunicato all’opinione pubblica ha assunto su di sé compiti che la Costituzione fa condividere con altri poteri o ordini o funzioni costituzionali. Chi decide cosa finisce in pagina non è né un politico né una toga né una divisa: è un giornalista, nel rispetto delle leggi vigenti e delle norme deontologiche. Un omicidio è un fatto che abbiamo diritto di sapere, tutti. Anche lei e me.

C’è di più, in questa storia. So che i colleghi delle agenzie, delle tv e dei quotidiani hanno fatto fatica per avere il nome del sospettato di omicidio, anche dopo un arresto. Poi quel nome è uscito, grazie alla tenacia dei cronisti e a qualche cedimento di un muro solo parzialmente spiegabile con la tutele delle esigenze investigative.

L’arresto non è prova di colpevolezza, abbiamo visto quanti errori sono stati fatti in passato. E allora va ribadito anche dalla mia modesta penna che un arresto è un fatto pubblico e che dare il nome di chi subisce la massima privazione della libertà non è solo un evento di interesse collettivo ma anche individuale. Quella persona in quel momento è l’elemento debole della cronaca e la stampa deve vigilare, controllare che non sia vittima di un errore giudiziario.

È la norma che indica questa strada? Dunque non è colpa di procure e divise? Può darsi. Almeno noi della stampa continueremo a dire che è una norma sbagliata. Che va corretta. Resta che non ci pare che un delitto taciuto sia utile alla causa del garantismo, per la quale continuerò a battermi nei miei residui ruoli professionali. Concludo salutando con enorme dispiacere Anna Maria Linsalata, mia collega, sorella della donna che sarebbe stata vittima di un nuovo femminicidio e di un silenzio anche troppo lungo.

Photo credits: Ansa.it


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