Perché è sbagliato tener nascoste le notizie

Alcune considerazioni sul riserbo tenuto dalla procura per oltre un anno su un probabile delitto e una risposta al procuratore Giuseppe Amato

di Aldo Balzanelli, giornalista


Ho letto con interesse il dibattito aperto su queste pagine a proposito del ritardo con il quale la procura della Repubblica ha ritenuto di comunicare all’opinione pubblica l’esistenza di un’inchiesta per omicidio: la morte di una donna attribuita inizialmente a cause naturali e per la quale è invece da oltre un anno è sospettato il marito della vittima.

Il mio interesse nasce certamente da una deformazione professionale (ho fatto per molti anni il cronista giudiziario), ma soprattutto perché come cittadino sono rimasto sconcertato scoprendo che un anno e mezzo fa nella mia città è avvenuto un probabile femminicidio e che la magistratura ha deciso, in tutto questo tempo, di non farcelo sapere.

Ho letto le considerazioni del procuratore Amato (qui), ma mi sembra che non rispondano affatto in modo convincente alle critiche espresse da Giampiero Moscato (qui), Silvestro Ramunno e Matteo Naccari, presidenti dell’Ordine dei Giornalisti e dell’Associazione Stampa Emilia-Romagna.

Il procuratore, per giustificare il ritardo nell’informazione, si appella innanzitutto alla riforma Cartabia. Questa norma nasce da una direttiva europea che sollecitava l’Italia a introdurre maggiori tutele nei confronti della presunzione di innocenza degli indagati. Nel caso di cui stiamo parlando nessuno mette in discussione che la procura aveva tutti i diritti di mantenere il riserbo sull’informazione di garanzia nei confronti del marito della vittima, ma a mio parere, l’opinione pubblica aveva diritto di sapere che una donna (forse due donne, visto che i sospetti gravano anche sulla scomparsa della madre) era stata molto probabilmente uccisa e non era stata portata via ai suoi figli, ai suoi parenti e alle sue amiche da un malore. Cosa c’entra questo con la tutela della presunzione di innocenza?

E ricordo tra parentesi al procuratore che la stessa Cartabia afferma la possibilità di «prevedere conferenze stampa nel caso di fatti di particolare rilevanza pubblica». Un medico molto conosciuto sospettato di aver ucciso la moglie, anche lei abbastanza nota, non è un fatto da considerare di “rilevanza pubblica”? Una donna assassinata cercando di simulare una morte naturale con un cocktail di farmaci non è “di rilevanza pubblica”?

Il secondo aspetto al quale si appella il procuratore è l’esigenza di poter indagare con riservatezza. Se questo può essere vero per la primissima fase delle indagini, quando ancora gli elementi che potevano far propendere per un’ipotesi di omicidio erano labili, non è certamente vero per la lunga fase successiva, durante la quale sono state ascoltate decine di testimoni, compiute perizie, disposte perquisizioni e intercettazioni, effettuati sopralluoghi e interrogatori in ospedali e società sportive. Quando insomma, data la relativa notorietà dei protagonisti, mezza città, oltre naturalmente al sospettato, era informata che si stava procedendo per omicidio.

Lo stesso imputato, i suoi avvocati, i suoi familiari, gli amici, la sua amante e sostanzialmente tutti i protagonisti e i comprimari, erano perfettamente informati da oltre un anno. Almeno dall’inizio di marzo dello scorso anno, come risulta chiaramente dall’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere Giampaolo Amato. Dove erano per tutto questo periodo le «esigenze di compiere indagini nel riserbo?».

Il procuratore tra l’altro afferma che «l’interesse è sempre solo quello della efficacia delle investigazioni». Spiace contraddirlo, ma esiste anche un interesse della comunità che va rispettato e che la valutazione sulla rilevanza di una notizia (nonostante Cartabia) non spetta alla procura della Repubblica, ma ai giornalisti che possono avere tante colpe, ma non possono essere ridotti a svolgere il ruolo di velinari (in questo caso neppure questo) sia pure di una istituzione importante come la magistratura. E non può e non deve accadere, come invece è successo, che persino la notizia dell’arresto sia stata silenziata per oltre tre giorni. Perché ne va della natura stessa della democrazia. Non c’è bisogno di ricordare quante vicende giudiziarie avrebbero avuto un percorso diverso senza la “curiosità” degli organi di informazione che non si sono voluti accontentare delle versioni ufficiali.

Un’ultima cosa. Sento nell’aria una teoria secondo la quale la riservatezza avrebbe avuto lo scopo di evitare il circo mediatico che, purtroppo, spesso si scatena intorno a questo genere di vicende: ospitate di sedicenti esperti in trasmissioni televisive, plastici della scena del crimine, processi tv e così via. È vero, vi sono media che superano senza remore i limiti del buon gusto e della decenza, ma tenere nascosta l’inchiesta su un delitto (forse due) per oltre un anno non serve, perché prima o poi, come dimostrano i fatti di questi giorni, il caso è destinato ad esplodere e il circo a mettere in campo i suoi clown. Ci sono mezzi d’informazione che svolgono con serietà il loro lavoro e altri che utilizzano le vicende giudiziarie per solleticare i peggiori istinti del loro pubblico. Ma non è nascondendo le notizie che si scongiurano questi eccessi. Anzi, questo non fa altro che sollecitare, come hanno ben scritto Ramunno e Naccari, la ricerca di informazioni fuori dai canali istituzionali, con il rischio di diffondere dati incompleti, inesatti e parziali.

Photo credits: il Fatto Quotidiano – Roberto Serra/Iguana Press (CC BY-NC-SA 2.0)


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