Ci sono strade belle a vedersi, dolci da vivere. Altre sono strisce d’asfalto: gelide d’inverno, roventi d’estate, fabbriche di Co2. Provare a ripetere, dopo il boom edilizio fatto al risparmio, la sapienza ambientale e urbanistica di via Audinot, viale Oriani, via Gandino, dove camminare è un piacere qualunque sia il tempo, renderebbe più bella e vivibile la città. Investire sul verde non solo nei parchi ci avvicinerebbe a Ginevra, Vancouver, Oslo. Dove si vive bene, anche in periferia
di Giampiero Moscato, giornalista
Qualcuno obietterà che ci sono cose più importanti da fare. Mi hanno già rimproverato più persone sulla pagina Facebook di Cantiere Bologna dopo la proposta (“Quella torre mutilata, una ferita da curare”) di ricostruire la ciminiera del Molino Parisio, lesionata dal sisma del 2012 e poi dimezzata per evitarne il crollo. Più avanti spiegherò perché credo al principio che qualunque azione può essere giudicata meno importante di un’altra eppure non significa che non sia giusto farla. Intanto lancio un’altra idea, forse più comprensibile a chi pensa che certi soldi si dovrebbero spendere meglio: «Alberiamo Bologna».
So bene che è in corso la campagna ambientalista “Mettiamo radici per il futuro”, promossa dalla Regione per piantumare entro il 2024 quattro milioni e mezzo di alberi, uno per ogni residente, offerti gratuitamente da una ventina di vivai accreditati a enti locali, associazioni, scuole, cittadini. Bello. Ma alludo a qualcosa in più, che sappia unire all’intento di migliorare la qualità dell’aria (più alberi meno CO2 e più ossigeno) anche un’idea di arredo urbano.
Bologna in tempi più attenti ai bisogni reali seppe creare luoghi di vita urbana nei quali decenni dopo, anche sotto il solleone, camminare è piacevole pure nelle incombenze di vita quotidiana. Via Audinot, via Gandino, via Argelati, via Barbieri, viale Oriani, gli stessi viali di circonvallazione furono concepiti come necessario terreno di cementificazione (l’umanità deve pur muoversi) ma con precisi interventi di mitigazione, ambientale e architettonica. La gran parte delle strade del boom edilizio invece sono strisce d’asfalto: gelide d’inverno, roventi d’estate. Luoghi spesso tristi, comunque non belli, di pura produzione di anidride carbonica e polveri sottili. In quelle vie la temperatura reale è di alcuni gradi maggiore che nelle sorelle alberate. Mettere a dimora piante ad alto fusto a distanze fisse avrebbe effetti benefici su clima, aria, vivibilità di zone condannate al cemento.
Certo, l’idea costa. Nel tempo sarebbe un investimento a buon tasso di rendimento: meno problemi di salute, minori consumi elettrici, maggior valore degli immobili, per fare alcuni esempi. Aspettando le obiezioni di chi pensa che ci siano cose più urgenti (lo so anche io: la disoccupazione, la rete sanitaria, le fasce deboli, ecc.), ribatto che una società è civile se cresce in maniera ordinata. Avere piena occupazione in città costruite male e poco vivibili non significa benessere. Del resto il bilancio di ogni amministrazione pubblica riserva una quota, proporzionata al bisogno teorico, a ciascuna voce di spesa: sono tutte utili. Se cresce la povertà non si smette di tappare le buche delle strade. E quando si smette di farlo, perché si dirottano le poche risorse alla difesa del welfare, la cittadinanza si arrabbia. Chi governa ottiene riconoscimenti se dimostra che spende bene i soldi dei contribuenti. Fare più bella una città è un investimento oculato per il bene collettivo.
Tra le varie obiezioni che ho ricevuto alla proposta di ricostruire la ciminiera Parisio ce n’è stata una particolarmente sensata: «Lascerei tutto com’è. Il segno del tempo che passa e tutto trasforma». Ma in questo caso non è come l’effetto del tempo sul Colosseo, che sarebbe ridicolo ristrutturare. È un intervento umano su un manufatto pericolante: in emergenza lo si mozza, poi si decide se rifarlo o demolirlo del tutto. Un mozzicone non significa nulla. Meglio abbatterlo e mettere una targa: «Qui c’era la ciminiera…». Quel moncone non ha la forza evocativa del Memoriale della Pace di Hiroshima, lasciato così come lo devastò la bomba atomica nel 1945, monito chiaro contro gli orrori della guerra nucleare.
Ribadisco, lasciarlo così è un segno di resa al sisma. Che invece fu domato, ripeto anche questo. Qualcuno mi ha sbeffeggiato. Forse ragionando meglio comprenderà che il senso della parola “domato” sta nell’eccellente ricostruzione che seguì e nelle più severe norme antisismiche varate che renderanno meno gravi le conseguenze di un eventuale nuova scossa tellurica: in Giappone non muore più nessuno di sisma. In Afghanistan a frotte. Bologna dopo il 2012 è ancor più vicina a Tokyo che a Kabul.
Magari, alberando le strade, si avvicinerebbe a Vancouver e Oslo. Dove il verde occupa più di un quarto della superficie. E dove si vive bene. Anche in periferia.

Bravo
Bravissimo Giampiero!
Caro Direttore, perché come “Cantiere Bologna” non organizzate un flash mob riempiendo per una giornata una strada di Bologna di alberi, fiori, etc…? Stefano Mancuso, Carlo Petrini, Stefano Boeri e tanti altri, stanno dicendo che non c’è più tempo! Bisogna completamente cambiare paradigma! Ma la Pandemia, la Guerra cosa ci hanno insegnato?
Bene.
Non siamo più solo noi Verdi a chiedere alberi.
Per inciso il piano regionale per quattromilioni e cinquecento mila alberi e”na nostra proposta inserita poi nel programma di Bonaccini e che va implementata.
Una città senza alberi,senza verde,senza giardini anche nelle periferie e nei quartieri meno ricchi risulta un danno per tutti a partire dai più deboli e dai più poveri.
Il verde pubblico è un servizio sociale primario.
Oltre a mitigare il clima.
Senza un po di bellezza si vive molto peggio.
Già che siamo sommersi da fumi e rumori e da aria mefitica. Causa di malattie croniche e tumorali